L’etnia non è un destinoNon è vero che negli Stati Uniti le minoranze votano sempre per la sinistra

In un articolo pubblicato su American Purpose, Francis Fukuyama spiega che non basta la demografia a determinare le preferenze elettorali degli elettori

Ap/Lapresse

L’ingresso delle nuove generazioni nell’elettorato attivo, la riduzione della classe operaia bianca, l’incidenza sempre maggiore delle minoranze sul totale della popolazione dovrebbero favorire i partiti progressisti, in Europa, negli Stati Uniti, in maniera piuttosto omogenea in tutto il mondo occidentale. Almeno così ritiene l’establishment del Partito Democratico statunitense. Allo stesso modo i conservatori si sono convinti che queste tendenze di lungo periodo li sfavoriscano, e li hanno convinti a opporsi puntando alla riduzione della partecipazione elettorale e altri sistemi per evitare una subalternità che potrebbe sembrare inevitabile.

«In realtà la lezione chiara emersa da queste ultime elezioni per democratici e repubblicani è che la demografia non è un destino», scrive Francis Fukuyama in un articolo su American Purpose, progetto editoriale di cui è direttore.

Fukuyama è un politologo statunitense che dirige il Center on Democracy, Development and the Rule of Law alla Stanford University. Nel 1992 pubblicò il saggio “La fine della storia”, in cui sosteneva che la diffusione delle democrazie liberali, del libero mercato, con annesso lo stile di vita occidentale avrebbe segnato la fine dello sviluppo socioculturale dell’umanità. Tesi poi parzialmente sconfessata quattro anni più tardi con il libro “Fiducia”.

Nell’introduzione del suo articolo su American Purpose, Fukuyama tira un grosso sospiro di sollievo per la sconfitta di Donald Trump. Poi però entra nel merito, analizza il voto e commenta «l’errore commesso da molti democratici: pensare che le categorie di identità determinino le preferenze politiche», spiegando quindi che l’etnia non è in alcun modo una categoria fissa e certa quando si contano i voti.

I primi dati emersi dalle elezioni del 3 novembre scorso ci dicono che le minoranze hanno votato per Trump più che nel 2016. «Le elezioni hanno mostrato che afroamericani, ispanici e persino musulmani hanno votato per Trump con percentuali maggiori rispetto al 2016, nonostante tutte le affermazioni denigratorie che lui – il primo presidente apertamente razzista dai tempi di Woodrow Wilson – ha detto su di loro», scrive Fukuyama.

Un articolo pubblicato la settimana scorsa sull’Atlantic indicava alcuni dati storici che aiutano a inquadrare il discorso: «I democratici hanno storicamente vinto circa il 90 per cento dei voti neri e oltre il 65 per cento dei voti latini. Ma alcune prove suggeriscono che Biden abbia perso il sostegno tra le minoranze. Nella contea di Robeson, in North Carolina, dove i nativi americani rappresentano la maggioranza degli elettori, e che Barack Obama ha vinto di 20 punti nel 2012, Biden ha perso di 40 punti percentuali. A Detroit, dove quasi l’80 per cento della popolazione è nera, il sostegno di Trump è cresciuto rispetto ai livelli del 2016, anche se di soli 5mila voti».

Al netto di una necessaria revisione dei dati – dovrebbero arrivarne di più completi nelle prossime settimane – i primi numeri confermano quanto spiegato da Fukuyama, cioè che le minoranze non sono necessariamente un monolite che possiamo considerare sempre e comunque schierate per il candidato più progressista.

In questo modo perde efficacia quella proiezione che attribuirebbe una sorta di maggioranza permanente e inscalfibile ai democratici: anche se tra quindici, venti o trent’anni, negli Stati Uniti «minorities will be majorities», quindi le minoranze etniche sommate conteranno più cittadini rispetto ai bianchi, non è detto che le elezioni saranno tutte a senso unico.

Anzi, per alcune categorie di elettori si sta verificando il contrario. L’esperto di sondaggi David Shor ha spiegato in un’intervista a Politico che «il partito repubblicano in realtà sta riunendo quella working class multietnica da sempre ambita dal Partito democratico». Ed è su cambiamenti di questo tipo che i conservatori dovrebbero puntare.

Un insegnamento, scrive Fukuyama, il Grand Old Party potrebbe ricavarlo dalla storia britannica.
Il Secondo Reform Act del 1867 fu voluto dal primo ministro conservatore Benjamin Disraeli contro l’opposizione di molti della stessa fazione, che lo definirono un traditore e temevano che l’espansione dell’elettorato gli avrebbe impedito di vincere le elezioni per anni.

«Si è scoperto invece che gli elettori della classe media e operaia non sarebbero andati a votare automaticamente per i partiti di sinistra: questioni come l’interesse nazionale e l’impero erano più importanti delle lotte di classe, e i conservatori avrebbero continuato a vincere le elezioni fino al all’inizio del ventesimo secolo. La democrazia britannica prosperò quando i conservatori si adeguarono a una demografia in evoluzione».

Al contrario, sottolinea Fukuyama, in altri Paesi i conservatori hanno continuato a vedere l’espansione dell’elettorato come una minaccia. «In Argentina, ad esempio, si sono spostati in una direzione autoritaria sostenendo il colpo di Stato militare del 1930. Hanno favorito strategie antidemocratiche anziché cercare nuovi modi per attirare un elettorato più ampio, come avevano fatto i conservatori britannici».

Oggi ci sono diversi esempi di come l’elettorato non sia necessariamente statico, immutabile. Non è un bacino di voti totalmente a favore delle forze progressiste. Rimanendo nel perimetro degli Stati Uniti, basta guardare gli Asian American”, gli americani di origine asiatica. Una popolazione cresciuta di oltre il 70 per cento dal 2000 a oggi, arrivando a quota venti milioni, circa il 6 per cento della popolazione totale. Inevitabilmente è cambiato anche il numero di elettori, all’interno di questo gruppo: è raddoppiato negli ultimi venti anni.

Come ha scritto Hua Hsu sul New Yorker pubblicato a inizio novembre, «è importante ricordare che gli Asian Americans tendono a non identificarsi fortemente con nessuno dei principali partiti: quasi due elettori asiatici americani su cinque non sono registrati né come democratici né come repubblicani. Sono i classici elettori indecisi, sono elettori che possono essere persuasi».

La stessa locuzione Asian American è stata coniata alla fine degli anni Sessanta nel tentativo di solidarizzare e avvicinare alla vita politica gruppi di immigrati con storie differenti. Ma da sempre è difficile categorizzare e attribuire tratti identitari netti a una minoranza frammentata socialmente e linguisticamente.

«Se un partito parla ai taiwanesi americani, opponendosi alla Cina, rischia di perdere nuovi immigrati dalla terraferma. Dichiarazioni vicine alla confessione cristiana potrebbero attrarre i fedeli coreani americani, ma potrebbero allontanare indù e musulmani dall’India e dal Pakistan», scrive il New Yorker.

Allora ecco che per qualunque forza politica considerare le minoranze, prese singolarmente o nel loro insieme, come un blocco unico sarebbe un errore. «Trump e i suoi seguaci si sono convinti del fatto che se tutti gli elettori votassero in massa i repubblicani non vincerebbero più. Così hanno riposto le loro speranze in strategie antidemocratiche: soppressione degli elettori, gerrymandering, dipendenza da istituzioni antimaggioritarie come il Senato e il collegio elettorale e, come abbiamo visto in queste elezioni, facendo uno sforzo per sovvertire la democrazia del voto inventando accuse di frode», scrive Francis Fukuyama.

Invece i 70 milioni di voti presi da Trump dovrebbero far capire che i repubblicani possono ancora proporre idee valide basate su ordine civile, patriottismo e altri temi. «I conservatori – conclude Fukuyama – dovrebbero avere più fiducia nel potere delle loro idee. Un futuro Partito Repubblicano potrebbe sostenere il voto universale, il distretto apartitico, persino la riforma del collegio elettorale e vincere comunque le elezioni. L’alternativa scoraggiante è muoversi in una direzione apertamente autoritaria, come fecero i conservatori argentini nel 1930. Al contrario, i democratici devono capire che le loro categorie di identità non sono determinanti per le scelte degli elettori e che anche loro devono convincere l’elettorato che sostengono le buone idee. Nel bene e nel male, la demografia non è il destino».

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