Storie di redneck“Elegia americana” è diventata un film e non racconta più un pezzo del Paese ma solo una famiglia

Nel libro le vicende autobiografiche di una famiglia white trash erano prese, anche da una certa retorica trumpiana, come esempio del fallimento della globalizzazione. La sua trasposizione su Netflix si concentra invece sulle dinamiche private. E forse è un peccato

frame del film

Proprio mentre una serata universitaria, di quelle in cui i giovani laureati dell’Ivy League entrano i contatto con studi legali importanti e aziende di prestigio, il giovane J.D. Vance – mente brillante e provenienza umile – viene richiamato alla brusca realtà delle sue origini.

Prima con un dettaglio da poco: la disposizione delle forchette sul tavolo («È un test?» chiede al telefono alla fidanzata, ben più inserita di lui. «Sì»). Poi i silenzi significativi dei commensali, l’impiego da parte di uno di loro del termine “redneck” «Non è una parola che usiamo». Infine, la telefonata: la madre (interpretata da Amy Adams) è stata ricoverata di nuovo per overdose di eroina. La sorella non può più occuparsene e J.D., anche se a breve avrà un’altra intervista di lavoro (è in gioco il suo internship estivo, con cui potrà pagarsi la retta di Yale), deve tornare in Ohio a risolvere la situazione.

Da qui parte la storia, o meglio: riparte. Perché la ricomparsa di Vance in città si sovrappone a una lunga serie di flashback, cioè i ricordi di una famiglia disfunzionale rovinata da una catena generazionale di abusi.

C’è tutto: l’alcol, la droga, la violenza, il vandalismo gratuito. È una sequela di personalità sfilacciate e occasioni perdute, frustrazioni rinfacciate di padre in figlio, soldi pochi e matrimoni improvvisati. «Avrei potuto andare in una università importante», ricorda la madre, prima di affondare il piede sull’acceleratore per la rabbia, rischiando un incidente.

Sono episodi di vita vissuta: “Elegia Americana”, film girato da Ron Howard (ex genero ideale in “Happy Days”) si rifà all’omonimo libro di J.D. Vance, uscito nel 2016, una cronaca personale e sociale della propria famiglia negli ultimi 20 anni.

Un testo diventato subito controverso, non tanto per il suo messaggio quanto perché i Repubblicani lo avevano trasformato nel loro manifesto nella campagna elettorale di Donald Trump. Il forgotten man americano esisteva ancora. Soprattutto, era bianco, era il deplorable, il rappresentante del white trash, il redneck (appunto) che diventa così un soggetto politico, o meglio, un oggetto della propaganda. Trasformato nella dimostrazione vivente ed evidente dei fallimenti della globalizzazione, di Barack Obama, delle campagne per i diritti civili per le minoranze.

Ecco, il film cerca di evitare tutto questo e il suo problema è che ci riesce. Depurato dalla velenosa propaganda trumpista, trasforma la testimonianza sociale in vicenda privata.

Il mondo dei Vance rimane chiuso in se stesso, presentando una storia di famiglia disfunzionale popolata da protagonisti ambigui (la nonna, Mamaw, interpretata da Glenn Close, è monumentale), interazioni pericolose e confronti rabbiosi. Il tentativo di liberarlo dalla zavorra sociologica per farne quasi parabola universale è proprio come la vita stessa di J.D.: alla non funziona, il peso delle origini ritorna e la vera domanda rimane inevasa.

Come scrive il New York Times, «I Vance sono rappresentati come una famiglia rappresentativa. Ma di cosa?». Il film pensato per essere uno specchio dell’anima americana sembra non riflettere proprio nulla. Questo forse dimostra che la propaganda trumpiana era falsa. O che la sana urgenza di liberarsene al più presto potrebbe portare a dimenticare le questioni che, senza saperlo, aveva sollevato.

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