Quanto è inglorioso l’universo dei congiunti. Proprio mentre si discute, in piena seconda ondata, dell’importanza del Natale con i tuoi, dal 24 novembre esce in streaming (su varie piattaforme) una nuova versione cinematografica de “Gli indifferenti”, il romanzo del 1929 di Alberto Moravia. A ricordare quanto possa essere disfunzionale e corrotta la famiglia.
Il regista (e sceneggiatore) Leonardo Guerra Seràgnoli sceglie la fedeltà: ambientazione romana, sfacelo della classe alto-borghese, grettezza di fondo. Alla famiglia Ardengo, ormai senza soldi, si prospetta la dolorosa necessità di vendere la casa, uno splendido attico in una zona di lusso. La madre Mariagrazia (Valeria Bruni Tedeschi) ha perso, o forse mai avuto, il polso della situazione. Si è affidata ai prestiti di Leo (Edoardo Pesce), manager dalla scarsa sensibilità, il quale dopo essere diventato suo amante vuole prendersi anche la casa («Sono andato a letto con lei ogni settimana per tre anni. Me la sono meritata, no?»). Il figlio Michele (Vincenzo Crea) cerca di impedirglielo ma non riesce. Sua sorella Carla (Beatrice Grannò), che vuole fare la streamer di professione, pare non accorgersi di nulla, almeno fino a quando non finisce nelle mire dello stesso Leo, che la violenta (ma lei tacerà).
In tutto questo quadretto ci sono anche le visite dell’amica Lisa (Giovanna Mezzogiorno), ex di Leo che però punta a concupire il più giovane Michele le quali, insieme a misteriose scosse di terremoto, vanno ad aumentare le ansie della povera Mariagrazia, sempre più inconsapevole del mondo e sempre più cieca di ciò che accade. Ma se Moravia la descriveva come «eternamente offesa», nell’interpretazione di Valeria Bruni Tedeschi sembra solo confusa.
Quando uscì il libro, l’Italia stava diventando fascista. La classe borghese sceglieva di chiudere gli occhi di fronte al nemico in casa, le brutalità erano tollerate in nome dello status. La metafora, insomma, era cristallina.
Nel 2020 il declino è già avvenuto (è perfino diventato un tema da serie tv Netflix, come “Baby”), lo sfascio non fa nemmeno eco. L’inazione di Michele, la passività di Carla e la sventatezza insopportabile di Mariagrazia sembrano suggerire il vuoto di chi, in pochi anni, ha lasciato entrare in casa gli approfittatori, consegnando loro chiavi e fiducia. E quelli, anche in nome di un pretestuoso riscatto sociale, pensano ad appropriarsi, a danneggiare, a svilire. Anche qui, la metafora sembra cristallina.
Metafore e simboli, insomma, si capiscono. E il motivo – la borghesia corrotta e morente – ha del resto una lunga tradizione nella letteratura e nel cinema (il romanzo del resto aveva già conosciuto un adattamento nel 1964, a opera di Citto Maselli. E sfoggiava un cast, absit iniuria verbo, ben diverso).
A questa versione rimane però una cifra unica: il movimento. Se il romanzo insisteva sulla fissità – immobilità di sentimenti, di gesti e pensieri, il cui risultato è l’indifferenza – nel film invece si balla, e tanto. Danza il cattivo Leo – le cui sembianze richiamano un Palamara ripulito – in discoteca, sfoggiando movenze trumpiane. Canta anche, con Carla, per sedurla. E balla, ancora, quando la violenta (ma è più un rito di acquisizione che un atto di aggressione) tenendo sotto la musica dello stereo.
Danza del resto anche Mariagrazia, quando si scopre tradita – non sa con chi – in un contorsionismo nevrotico e sgraziato, stordita dall’incontro (uno dei pochi) con la realtà. Balla, infine, anche Michele: fallito ogni tentativo di riscatto, sceglie di lasciar perdere e fingere, partecipando alla festa in maschera che chiude il film. Intanto, pagato il prezzo per mantenere l’illusione dello status, il lento naufragio è avvenuto.