Se in Italia la curva dei contagi mostra i primi miglioramenti, a far paura è il numero di medici e infermieri che si stanno ammalando di Covid. Solo nell’ultimo mese sono stati contagiati 27 mila operatori sanitari, circa 900 al giorno. Oltre 65 mila dall’inizio della pandemia. I numeri crescono a ritmo forsennato, senza distinzione di colore tra regioni rosse, arancioni e gialle. Un aumento del 70% rispetto a metà ottobre. A questo bollettino di guerra bisogna aggiungere il conto dei decessi: 212 tra i camici bianchi e 51 tra gli infermieri.
«Nell’ultima settimana abbiamo perso uno o due medici al giorno. Una situazione inaccettabile». Filippo Anelli è il presidente della Federazione degli Ordini dei Medici. Al telefono con Linkiesta non nasconde la sua preoccupazione: «Nella prima ondata il 60% dei contagi avveniva negli ospedali e il 40% tra i medici di famiglia, ora la proporzione si è invertita». Tra i più esposti oggi ci sono pediatri e specialisti di medicina generale.
Sembra passato un secolo dal 4 marzo scorso, quando l’immunologo Roberto Burioni avvertiva: «Se si cominciassero ad ammalare massicciamente i medici sarebbe davvero il peggiore dei guai. Una priorità assoluta deve essere quella di mettere tutti i medici, inclusi quelli di medicina generale che sono in prima linea, nelle condizioni di poter svolgere il loro lavoro». La previsione si è avverata, oggi i numeri dei contagi lievitano. Con conseguenze pratiche anche per i pazienti: diversi studi sono costretti a chiudere in assenza di sostituti che prendano il posto dei professionisti malati.
Mentre in tv si susseguono gli annunci per reclutare medici in pensione, sul territorio tanti dottori devono combattere senza armi. Soprattutto negli ambulatori. Mancano tute e camici per fare le visite e i tamponi. A molti medici di famiglia viene fornito un numero insufficiente di mascherine, nonostante la mole di pazienti. «Il commissario Arcuri dice che i dispositivi di protezione sono disponibili per tutti – denuncia Filippo Anelli – allora non si capisce perché non arrivino. Vengono centellinati, se ne consegnano troppo pochi e in alcune aree cui c’è una vera e propria carenza».
Il presidente degli Ordini dei Medici Anelli non ha dubbi: «Regioni e aziende sanitarie locali stanno sottovalutando una situazione insopportabile, manca l’organizzazione sul territorio. Le Usca, le unità per l’assistenza domiciliare, non sono state attivate completamente e così anche i medici di famiglia non attrezzati vengono esposti al virus. Non si fanno corsi di formazione che insegnino a usare bene gli strumenti di protezione. Tutelare la salute dei medici non è una concessione, ma un obbligo dello Stato».
Forse non si poteva evitare la seconda ondata, ma certo bisognava prepararsi in tempo. E molto non è stato fatto, a partire dalla medicina territoriale. Quella che avrebbe dovuto gestire i malati a domicilio ed evitare il collasso degli ospedali. Oltre ai ritardi delle già citate Usca, spesso attivate all’ultimo minuto e in numero insufficiente, c’è un altro dato che fa riflettere.
Lo scorso maggio nel decreto Rilancio il governo Conte aveva previsto l’assunzione di 9600 infermieri di famiglia e di comunità per il 2020. Di questi si stima che sia entrato in servizio solo il 10%. E siamo a fine novembre. «L’arruolamento è troppo lento e la maggior parte del personale assunto è stato dirottato per l’emergenza negli ospedali», racconta a Linkiesta Tonino Aceti, portavoce di Fnopi, la Federazione nazionale degli ordini delle professioni infermieristiche. I rinforzi non sono ancora arrivati. Così sono sempre gli stessi professionisti, già provati, a gestire l’aumento esponenziale dei malati.
Nell’ultimo mese si sono contagiati 11mila infermieri in tutta Italia, al ritmo di 367 al giorno. «Le condizioni di lavoro negli ospedali non aiutano», riflette Aceti. «Questi operatori sono a contatto continuo coi pazienti. Non fanno solo terapie e manovre, li aiutano con le videochiamate ai parenti che non possono andare a trovarli. E li accompagnano anche nella fase terminale, quella più drammatica». Un carico di stress che in questi mesi ha portato cinque infermieri a togliersi la vita.
Oltre al danno, la beffa. La scorsa primavera gli operatori sanitari sono diventati, per tutti, “eroi” e “angeli”. Gli applausi sui balconi, i messaggi di affetto sui social, le fotografie dei volti segnati dalle mascherine. Non senza retorica, medici e infermieri venivano portati in trionfo per il lavoro in corsia. Oggi invece piovono insulti. Ne sa qualcosa Adele Di Costanzo, 27 anni, dottoressa in servizio con le Usca di Vicenza. Lei è una di quei camici bianchi che entrano nelle case dei pazienti Covid. «Mi sono contagiata sul lavoro – racconta a Linkiesta – eravamo in condizioni di forte stress. Forse è successo nelle case di riposo in cui siamo andati, c’erano focolai di 40 persone».
Dopo il tampone positivo, alla forte stanchezza si sono aggiunti la febbre a 40 e i primi sintomi respiratori. Adele Di Costanzo viene ricoverata in ospedale. Una volta guarita, decide di scrivere un post su Facebook e Instagram per sensibilizzare i suoi coetanei: «Avevo visto le feste di Halloween e le scene da discoteca. Volevo invitare a non sottovalutare il virus». Il post diventa virale e arrivano commenti di ogni genere, pieni di cattiverie. «Mi hanno dato dell’assassina, hanno detto che medici come me fanno morire i pazienti, hanno messo in dubbio che fossi una dottoressa e che fossi stata malata. Altri hanno negato l’esistenza del virus, oppure mi hanno invitato a stare zitta e lavorare, senza dare lezioni di vita».
Con il ritorno del virus e l’incubo delle chiusure, la situazione è sfuggita di mano? «Oggi viene a mancare la fiducia, anche nei medici. Penso che molte persone si siano stufate, è più semplice credere che il virus non esista e che siamo noi i colpevoli, è più facile pensare che con una ribellione si risolva tutto, invece di stringere i denti e andare avanti».