Dopo quella mail del 21 gennaio il mio ospedale, il policlinico San Matteo di Pavia, non è più lo stesso. Iniziamo a costruire gli argini in vista di una piena eccezionale che, un mese più tardi, non mancherà di arrivare.
Ci ritroviamo in corsia, in ufficio e in riunione più volte al giorno, e in ogni occasione proviamo a immaginare come gestire una potenziale, imminente emergenza. Le notizie dalla Cina non sono rassicuranti, sull’evoluzione della crisi sanitaria a Wuhan si sa poco o nulla; applicare qui da noi misure di chiusura delle città simili a quelle che vengono messe in atto in Asia è inimmaginabile.
Il 27 gennaio è un lunedì come tanti qui a Pavia. Oggi, però, riceviamo una segnalazione singolare. Tra gli studenti dell’ateneo c’è un giovane cinese che di recente si è iscritto a un corso di italiano. È appena tornato da un paesino a pochi chilometri da Wuhan, in questi giorni forse il luogo più nominato al mondo. Il ragazzo dice di stare bene, prova a rassicurare docenti e colleghi. I vertici della nostra università scelgono la strada della prudenza.
Così si presenta da noi al policlinico. Ricostruiamo i suoi spostamenti dall’aeroporto di Malpensa fino al suo arrivo a Pavia. Lo sottoponiamo al tampone che dà esito negativo. Tiriamo tutti un sospiro di sollievo che, però, durerà poco. Meno di un mese per essere precisi.
È venerdì 21 febbraio. Alle undici e mezzo, dopo la riunione del mattino, saluto i miei collaboratori.
Stasera è giorno di palestra, ma decido di non pensarci troppo: è ancora presto, è mezzogiorno. Vado al bar a mangiare un panino. Squilla il telefono: «Professore, abbiamo un paziente in Pronto soccorso con febbre alta e difficoltà respiratorie».
Okay, panino e palestra dovranno aspettare. Quest’uomo ha fame d’aria, tosse. Decidiamo di ricoverarlo. Dopo appena un paio d’ore la situazione che pensavamo di poter gestire con l’ausilio di ossigeno e di terapia di supporto peggiora. Arriva l’esito del tampone nasale: positivo al Covid-19. Visto il suo quadro clinico non ci sono alternative alla terapia intensiva. Purtroppo non ne uscirà più.
Al mattino, con alcuni colleghi, avevamo commentato la notizia del caso di un italiano positivo al coronavirus a Codogno. Ed è proprio l’ospedale di Codogno, poche ore dopo, a contattare il reparto di Rianimazione: «Potete accogliere un paziente di trentotto anni, febbre alta e polmonite interstiziale?». Inizia così la storia del paziente 1 a Pavia.
Mattia Maestri è un giovane uomo di trentotto anni. Una delle quindicimila anime racchiuse in un piccolo comune in provincia di Lodi, Codogno. Lavora a dieci minuti di auto da casa, a Casalpusterlengo, in una delle sedi italiane di una multinazionale. Se esistesse una colonna sonora nella vita di ognuno di noi, la sua sarebbe “Born to Run” di Bruce Springsteen.
È nato per correre, partecipa a tutte le maratone regionali, gioca a calcio con gli amici e lo guarda in tv tifando per il suo Milan. La prima volta che Mattia finisce in ospedale è di domenica.
Ha febbre alta e, dai primi esami, una lieve polmonite. Viene dimesso, paracetamolo e antibiotico basteranno, o così si pensa. Quattro giorni dopo torna in Pronto soccorso, quando il quadro clinico appare compromesso.
Fino a quel momento, le linee guida invitano i sanitari a effettuare il tampone solo ai pazienti che si presume siano venuti in contatto con persone che hanno recentemente frequentato la Cina. Annalisa Malara, rianimatrice nella struttura di Codogno, segue l’istinto e non le linee guida. Fa eseguire il test: Mattia risulta positivo al Covid. Sono le 20 del 20/02/2020.
Non sono scaramantico ma questi numeri mi si sono impressi nella memoria. Per un attimo mi tornano in mente le parole di un collega vicino alla pensione, era a due passi da me davanti al distributore di bevande, chiacchierava con un altro medico: «Chissà se è vero il detto: anno bisesto
anno funesto».
Organizziamo il viaggio in ambulanza da Codogno a Pavia. Con Mattia viaggia il direttore della nostra Rianimazione, Giorgio Iotti, grande esperto di insufficienze respiratorie. Riuscire a gestire un trasporto così delicato non è per niente scontato.
Mancano pochi minuti alle sei del mattino. Al suo arrivo in ospedale mi trovo davanti quel ragazzone disteso su una barella, intubato. Il suo quadro clinico è già molto critico.
È una giornata lunga, infinita. Ormai è chiaro che ci eravamo illusi: pensavamo che il nemico fosse alle porte, e invece era già in casa nostra.
da “Un medico – La storia del dottore che ha curato il Paziente 1”, di Raffaele Bruno, Fabio Vitale, HarperCollins, pagg. 160, euro 17