Arrocco lungo“La regina degli scacchi” è una bella favola, ma per raccontarla bastava un’ora

Una ragazza prodigio, un ambiente ostile e una sfida ossessiva per raggiungere il primato. La serie tv realizzata per Netflix ha una buona storia e una eccellente interprete: sul ritmo, però, poteva fare meglio

Netflix

Meglio non lasciarsi ingannare dalle prime scene: la protagonista si sveglia di soprassalto dopo una serata di follie, scopre che è tardi, si precipita a vestirsi, getta un occhio sul letto occupato da una persona e infila la porta della camera d’albergo, correndo verso l’uscita con le scarpe in mano. Ad aspettarla fuori ci sono i flash dei giornalisti. Chi è quella ragazza? Perché è di fretta? E come mai è famosa?

A tutto c’è risposta. Bisogna soltanto avere molta pazienza e prepararsi a un flashback lungo sette puntate, nelle quali non c’è traccia del ritmo dei primi minuti. “La regina di scacchi”, ultima produzione Netflix creata da Scott Frank e Allan Scott, tratta dall’omonimo romanzo di Walter Tavis del 1983, racconta la storia di Beth, ragazza prodigio degli scacchi (interpretata da una magistrale Anya Taylor Joy), che dopo la morte della madre finisce in un orfanotrofio, scopre la bellezza della scacchiera e comincia la strada per affermarsi in un mondo maschile e ostile, combattendo contro problemi di alcolismo e dipendenza.

Lo fa prendendosela con calma: la partita di scacchi più lunga del mondo, quella tra Ivan Nikolić e Goran Arsović del 1989, è durata 20 ore. La miniserie non ne totalizza neanche sette, ma la sensazione è la stessa.

Eppure gli ingredienti – il talento, la dipendenza, i problemi socio-relazionali – di solito funzionano. A questi va aggiunto anche il cosiddetto empowerment femminile, insieme al tocco d’epoca dei vestiti anni ’50 e una colonna sonora all’altezza. È una storia raccontata in maniera meticolosa, forse anche troppo: sono lunghe le scene nell’orfanotrofio dove Beth sviluppa la sua dipendenza dai calmanti (all’epoca, ci si stupisce di scoprire, venivano somministrati anche ai bambini) e altrettanto quelle in cui scopre la scacchiera (e di notte vede i pezzi muoversi sul soffitto della sala dormitorio). Lungo anche l’inserimento nella famiglia adottiva, nella scuola, nel mettere in mostra il suo talento.

Il resto delle puntante, sostenute dalla bravura di Anya Taylor Joy – aiutata dalle geometrie del viso e dall’eloquenza della sua mano, con cui muove i pezzi, si reggono su una lotta contro l’alcol, corsi di russo, incontri con esperti e geni, storie di amori e amorazzi, confronti con se stessa che portano alla partita finale contro il più grande campione sovietico.

In mezzo lo spettatore può scoprire nomi di mosse, trucchi nelle gare, aneddoti di grandi scacchisti. Impara anche che la comunità dei giocatori è composta «da primedonne», che i russi «giocano in modo scontato, burocratico» (ma vincono) e che le partite possono durare molto, molto a lungo.

Più di tutto, però, scoprirà che il gioco degli scacchi, anche per un personaggio come Beth, sarà sempre secondario rispetto all’esigenza, che diventa una missione, di trovare un posto nel mondo.

La scacchiera è una grande metafora? Non proprio: piuttosto, uno strumento che, insieme alle droghe, sostituisce le relazioni (la madre adottiva, i ragazzi) e permette di giocare su un terreno con regole chiare e nessuna eccezione. E dove, se c’è talento e determinazione – anche se si è donna in un mondo maschile – si può arrivare a giocare contro il migliore.

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