La svoltaParlamento e Consiglio Ue hanno deciso di limitare l’export dei sistemi di sicurezza e spionaggio

L’Unione vuole promuovere un regolamento che costringa gli Stati membri a una maggiore trasparenza in termini di licenze e renda più chiara la destinazione finale dei sistemi di sicurezza e spionaggio. Un passo molto importante per il continente che da anni cerca di arginare l’espansione di un settore redditizio, che ha spesso violato i diritti umani. Ora l’accordo è in attesa di approvazione

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Una svolta, finalmente. Dopo anni di tentativi andati a vuoto, per la prima volta i mediatori di Parlamento europeo e Consiglio dei ministri Ue hanno trovato un’intesa sulla limitazione dell’export dei sistemi di sicurezza e spionaggio verso Paesi che li utilizzano con finalità repressive. L’intenzione dell’Europa è quella di promuovere un regolamento che costringa gli Stati membri a una maggiore trasparenza in termini di licenze e renda così più chiara la destinazione finale di tali prodotti. Un passo molto importante per l’Unione europea che da anni cercava la maniera di limitare un mercato in espansione come quello della sicurezza. Per l’europarlamentare di area socialista Bernd Lange, capo della delegazione negoziale, «la perseveranza e l’assertività del Parlamento contro un blocco da parte di alcuni Stati membri ha dato i suoi frutti: il rispetto dei diritti umani diventerà uno standard di esportazione». Marketa Gregorova, eurodeputata del gruppo dei Pirati e relatrice, ha definito l’accordo «una vittoria per i diritti umani globali. Oggi abbiamo dato un esempio da seguire alle altre democrazie».

Raggiunto l’accordo, ora la palla passa alla commissione per il commercio internazionale e poi a Parlamento e Consiglio europei, che dovranno formalmente approvare l’accordo. Una tappa che si preannuncia non semplice, visto che già in passato molti Paesi si sono posti di traverso per non limitare le proprie aziende che spesso concludono affari molto redditizi. Il settore è tra i più ricchi in circolazione: basti pensare che negli Stati Uniti il mercato dei sistemi tecnologici dual use (come telecamere e sistemi di riconoscimento facciale utilizzati in ambito sia civile sia militare) vale già 100 miliardi di euro. Quello europeo non è facilmente quantificabile ma, secondo una stima fatta nel 2015, si aggira intorno ai 30 miliardi di euro, con prospettive al rialzo visto che entro il 2025 il mercato dei prodotti biometrici giungerà alla cifra di 54 miliardi di euro.

Un settore dalle cifre importanti quindi, ma dove troppo spesso si è ignorato il destinatario finale. Finora le commesse sono sempre state a discrezione dei singoli Stati, mai a livello comunitario: secondo una indagine del sito olandese De Corrispondent nel 2017 il 52% delle richieste ricevute dai Paesi europei proveniva da Stati considerati dall’organizzazione Freedom House come “parzialmente liberi”. Molti prodotti “made in Unione europea” come i sistemi di riconoscimento facciale, telecamere di sorveglianza, strumenti di analisi del comportamento e di riconoscimento delle emozioni e software di hacking sono così finiti in mani sbagliate. Un esempio? Il governo cinese di Xi Jimping, che ha utilizzato i prodotti comunitari per controllare e reprimere la minoranza uigura nello Xinjiang.

Lo scorso settembre Amnesty International ha accusato tre società europee (la francese Morpho, la svedese Axis e l’olandese Noldus) di aver fatto affari con il governo di Pechino «non svolgendo un’adeguata due diligence sui diritti umani o su come i loro prodotti sarebbero stati usati per violarli, in osservanza ai Principi guida delle Nazioni Unite su imprese, diritti umani e legge». Secondo Merel Koning, responsabile dei diritti umani presso Amnesty International, «l’industria europea della sorveglianza biometrica è fuori controllo: è un’industria multimiliardaria che fiorisce vendendo i suoi prodotti a chi abusa dei diritti umani.

L’attuale sistema di regolamentazione delle esportazioni europee è rotto e deve essere riparato rapidamente». Un appello a cui si è aggiunta anche la lettera di Human Rights Watch che ha chiesto all’Europa di «adottare un regolamento con standard adeguati sui diritti umani e meccanismi funzionali a istituire criteri di trasparenza e divulgazione sulle licenze di esportazione per i Paesi membri».

Non c’è solo la Cina però. La lista di soggetti dalla fedina poco pulita aiutati da Paesi membri europei è decisamente lunga. La tecnologia comunitaria ha aiutato i governi del Nord Africa a sedare le rivolte della Primavera araba nel 2011 e in particolare l’Egitto, da quando il generale Al Sisi ha assunto la guida dell’esecutivo nel 2014. Tra i clienti più affezionati però ci sono anche la Turchia, che si è rivolta ai tecnici tedeschi della FinFisher per controllare i manifestanti anti-Erdogan nel 2017, e il Turkmenistan, che ha un posto speciale nella lista di “cattivissimi” stilata dalla Freedom House per la quasi totale assenza di diritti politici e libertà civili. Non mancano però anche Emirati Arabi Uniti, Etiopia e Arabia Saudita, nonostante per quest’ultima sia ancora attivo il bando alla vendita di armi e prodotti di sicurezza dopo la morte del giornalista Jamal Khashoggi.

Vista la lista di clienti a cui si rischia di rinunciare, sembra quasi normale che gli Stati abbiano tirato per le lunghe una saga iniziata ormai 4 anni fa. La Commissione aveva presentato la proposta di aggiornare le norme in base alle quali è possibile esportare beni, software e tecnologia a doppio uso già nel 2016, ma si è dovuta scontrare nel tempo con l’opposizione di Paesi come Svezia, Germania e Francia. La stessa Commissione ha ammesso di aver incontrato la resistenza di qualche Stato membro nelle fasi di negoziato tra Parlamento e Consiglio.

L’adozione di un atto europeo permetterebbe di tenere sotto controllo la vendita di tali prodotti non bloccandone il commercio, poiché costituirebbe un vantaggio per la concorrenza e un danno per il Vecchio Continente. Da anni la Commissione evidenzia in tutti i report come le minacce siano diventate estremamente sofisticate e come questo comporti il dover alzare il livello di guardia. Per questo da tempo investe nel settore della ricerca per la sicurezza: nel programma Horizon 2020 ha deciso di investire 3 miliardi, una cifra mai investita prima, immaginando un grande partenariato tra pubblico e privato. Un progetto che andrà ancora avanti, non dimenticando i principi fondamentali.

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