I filosofi dell’Illuminismo, nel corso del XVIII secolo, erano persuasi che l’evoluzione delle vicende umane, emersa dal cupo Medio Evo, avrebbe presto condotto la Storia a un lineare progresso, senza soste. Malgrado le riserve che la pratica della brutale Corte francese gli ispirava, dal Candide al Trattato sulla tolleranza, del 1763, lo stesso Voltaire alla fine era convinto che, come un individuo passa dall’infanzia alla maturità, un campo dalla semina al raccolto, anche politica ed etica non avrebbero potuto che lievitare verso giustizia e benessere diffusi.
Il grande critico e filosofo italiano Umberto Eco, scomparso nel 2016, obiettava però che il Medio Evo, lungi dall’esser stato quell’epoca sordida di barbarie che il secolo dei lumi detestava, aveva a lungo incubato fermenti e tensioni che poi la modernità avrebbe accolto.
Anche Marx ed Engels che, combattendo il capitalismo, ne tessevano di fatto le lodi come fenomeno di disruption, nel gergo 2020, della Storia, ricordano che il nostro Dante Alighieri era, insieme, ultima voce dal passato medievale e prima dal futuro della modernità.
La Grande Catena dell’Essere, concetto neoplatonico che lega Natura, Politica e Religione in una serie evolutiva comune, dai sassi all’oro, dai licheni a Leonardo da Vinci, dagli angeli a Dio, trae via via alimento da Platone, Aristotele, Plotino e, concepita ben prima dell’Illuminismo, ne viene però adottata, non più come scala verso il Paradiso celeste, ma verso il suo analogo moderno, il Progresso infinito dell’Encyclopédie illuminista, con le sue meravigliose tavole delle arti e dei mestieri.
Il Marchese di Condorcet dettò i dieci passaggi cruciali di questa scala, certo – come scrive nell’Esquisse d’un tableau historique des progrès del’esprit humain, pubblicato postumo nel 1795 – che l’umanità si sarebbe avvicinata, passo dopo passo a questo utopico, felice progresso. E la data postuma dell’opera – il Marchese scomparirà, forse suicida, in carcere già nel 1794, incriminato dagli ex compagni rivoluzionari – testimonia di come il suo ottimismo fosse, come quasi sempre gli ottimismi meccanici, pericoloso. Dalle illusioni non ricaviamo che delusioni.
Anche oggi gli ottimisti – “integrati” li avrebbe definiti Eco nel suo pamphlet di scritti vari del 1964, Apocalittici e integrati, contrapponendoli agli apocalittici nemici del presente – sono sicuri che il futuro sia roseo.
Ray Kurzweil, guru, filosofo, evangelista tecnologico di Google, predica la “singolarità” il giorno prossimo in cui attingeremo alla fusione umanità-macchina, la “transumanità”, schiudendoci la Città del Sole digitale. Altri, come il filosofo Theodore Adorno, sconvolti dalle stragi della Seconda Guerra mondiale, temevano invece che la luce dell’Illuminismo riflettesse solo lager e gulag e che “dopo Auschwitz scrivere poesie sia barbarie”. Del resto, “apocalittici” come il fisico Hawking o l’imprenditore Musk annunciano penitenziali che l’intelligenza artificiale non ci libererà alla Kurzweil, ma ci renderà servi del machine learning.
Queste pagine di Luca Tomassini, presidente e CEO di Vetrya, che vi accingete a leggere, sono scevre – grazie a Dio – da queste frustranti impasse e inducono a un diverso, e più fruttuoso, cammino. Come uomo di azienda attento alla nostra vicenda storica, Tomassini non ha né persuasioni built in by default che il progresso delle macchine ci attenda, alla fine della Catena dell’Essere, culmine del Progresso dello Spirito Umano, ed è anzi ben cosciente degli scacchi, le difficoltà, le impasse che incombono.
Il capitolo dedicato alle trasformazioni imposte alla nostra civiltà dalla pandemia di Covid-19 sono tra le più struggenti del libro e chiamano il lettore attento a una meditazione non corriva sulla caducità, l’arroganza e la fragilità di istituzioni, economie, società.
L’ottimismo di Tomassini non è frutto di albagia o presupponenza, ma si radica su una coraggiosa consapevolezza di come paura e ignoranza, fantasmi che credevamo di avere esorcizzato, possano, combinate, azzerare sviluppo, coesistenza pacifica, la tolleranza stessa, fondamenta di una convivenza democratica e libera. Uno sguardo, anche frettoloso, alle ricerche di Google Trends corrobora questa visione meglio di ogni parola.
Ricerca, scuola, laboratori, scienza, l’innesto tra conoscenza e produzione, non sono per Tomassini algoritmo arido da presentare al mercato, lustrando i risultati trimestrali o l’EBITDA, spaventapasseri degli imprenditori mediocri che tanto danno hanno fatto, con la loro cecità, al sistema industriale del Paese, corroborati da analisti ed economisti di piccolo cabotaggio.
Sono il motore della rinascita di un’Italia che non cresce da una generazione, come un altro saggio di questa casa editrice, “Declino, una storia italiana”, del 2019, opera dello studioso Andrea Capussela, bene attesta. Rinascita, dunque, non solo industriale ed economica, come il lettore avveduto intuirà già dalle pagine storiche che fungono da introduzione, ma politica e morale, epistemologica e culturale.
Come tanti leader di azienda che producono, prosperano ed esportano, competendo nel mercato globale, pur appesantite dai tradizionali ritardi italiani, Tomassini potrebbe rinchiudersi nelle mura di stabilimenti e uffici, soddisfatto del contributo fin qui offerto a comunità e dipendenti.
Non lo fa, non solo per spirito civico, ma anche, e soprattutto, perché avvertito di come questo atteggiamento individualistico, rampollo della disastrosa fola del “piccolo è bello” che tanti lutti ha indotto alle nostre PMI, lasciandone ancora una larga parte in panne, costringa a languire in un mondo dove massa, scala, innovazione e conoscenza si innervano senza soste.
Il libro di Luca Tomassini è manifesto di una chiamata alle armi di cultura e impresa, leva che dovrebbe smuovere politica, media, società civile, scuola. Di recente il Rettore dell’Ateneo Luiss Andrea Prencipe, il direttore generale Gianni Lo Storto, con intellettuali da ogni parte del mondo, hanno partecipato a una giornata di idee promossa dal Datalab e dal Master di Comunicazione e Giornalismo Digitale dell’Università.
Su input di Gianni Lo Storto lo abbiamo battezzato giusto “Punto di corda”, espressione che non conoscevo, malgrado la mia giovinezza spericolata alla guida di una rombante Gilera 124 SV: “punto di corda” è l’istante in cui il pilota, impegnato in una difficile curva, in piega, smette di frenare e ricomincia ad accelerare riacquistando velocità e terreno. Il nostro mondo intero è in attesa del “punto di corda”, persone e Paesi in frenata dura per il Covid auspicano di ripartire presto.
Queste pagine sono dunque manuale indispensabile, nella manovra ostica da cui le nostre vite sono oggi prese, da compulsare con cura per non perdere, come troppe volte in passato, il prossimo, e irripetibile, “punto di corda” italiano.
Da “Il grande salto – L’uomo, il digitale e la più importante evoluzione della nostra storia“, Luiss University Press, 2020, 198 pagine, 18 euro