Una delle tante regole d’oro del giornalismo è quella di non scrivere un articolo su un argomento troppo vicino per evitare di essere parziali. Faremo un’eccezione, ma per una buona causa. Oggi ricorre il secondo anniversario della morte di Antonio Megalizzi, il 29enne direttore editoriale di Europhonica, scomparso tre giorni dopo l’attentato di Strasburgo dell’11 dicembre 2018. A ferirlo a morte è stata una delle pallottole sparate dal suo coetaneo Chérif Chekatt, terrorista francese di origini algerine, che aprì il fuoco nella zona del Christkindelsmärik, lo storico mercatino natalizio di Strasburgo. In tutto 11 feriti e altri 4 deceduti: il thailandese Anupong Suebsamarn, il francese Pascal Verdenne, l’afgano Kamal Naghchband, e il polacco Bartosz “Bartek” Orent-Niedzielski, collega e amico di Antonio, deceduto nella stessa stanza dell’ospedale di Strasburgo, il 16 dicembre.
La morte di Antonio ha avuto un’eco mediatica impressionante in Italia. Monologhi in prima serata, editoriali in prima pagina, servizi nei tg, articoli e approfondimenti sul mondo e i sogni di Antonio. La vita in Trentino, le origini calabresi, la comunità che si stringe con amore attorno alla famiglia unita, la fede di mamma Anna Maria, la straziante compostezza nel dolore della sua ragazza Luana e del papà Mimmo mentre attendono la salma di Antonio con il presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Ma anche il lavoro in radio di Antonio, i suoi scritti sull’Europa, l’università ed Europhonica, il programma radiofonico universitario sull’Unione europea che dirigeva. Un interesse giornalistico legittimo per raccontare tutte le sfumature di una figura che ha colpito l’immaginario italiano: il ragazzo pieno di vita e passioni morto mentre stava lavorando al suo sogno, raccontare l’Europa e la politica ai suoi coetanei. Desiderava farlo per sempre.
Soprattutto nelle prime settimane dopo la morte di Antonio questo interesse mediatico legittimo è diventato in alcuni casi un morboso vouyerismo. Un peso difficilmente sopportabile per i parenti e le persone a lui vicine che hanno pazientemente rifiutato ogni richiesta di rivelare i piccoli segreti della vita di Antonio, così importanti per loro, così inutili da conoscere per il resto dell’opinione pubblica: quale musica ascoltava, che cibo mangiava, la routine giornaliera, il suo soprannome, le ultime parole. A questo si è aggiunto, per fortuna in pochi singoli casi, un patetico esercizio di strumentalizzazione delle frasi pronunciate dalla famiglia e dagli amici di Antonio, usati da alcuni giornalisti pigri e superficiali come una clava ideologica contro il sovranismo.
Poi, il silenzio. La vita va avanti, la politica torna a strillare, cadono governi, se ne formano nuovi, nascono polemiche su frasi inopportune, scoppiano pandemie, accadono nuovi attentati. I riflettori si spengono, i cellulari non squillano e la morte non fa più notizia, salvo quando si tratta degli anniversari. Questo è il normale e legittimo ciclo delle notizie.
E così dopo due anni Antonio e Bartek si aggiungono alla lunga lista delle vittime del terrorismo come Valeria Solesin, ricercatrice italiana presso la Sorbona di Parigi morta il 13 novembre 2015 durante la strage avvenuta al teatro Bataclan, o Fabrizia Di Lorenzo la 31enne di Sulmona che perse la vita al mercatino di Natale di Berlino il 19 dicembre 2016.
Alcune volte le famiglie decidono di esercitare il loro dolore nel silenzio, trasformando il proprio caro in una figurina cristallizzata così perfetta e immutabile da dare l’impressione che non morirà mai. Una scelta privata e intima che merita rispetto.
Ci sono però alcune famiglie che decidono di fare l’opposto: lasciare la propria ferita aperta in modo che sia il mondo a soffiarci sopra per rimarginarla, trasmettendo a più persone possibile l’eredità della persona perduta affinché viva nelle menti e nei cuori di molti. Un esercizio straziante e gioioso allo stesso tempo.
Lo si può fare istituendo un premio giornalistico, come il premio Valeria Solesin, giunto alla sua quarta edizione. Un concorso ispirato agli studi della giovane ricercatrice per premiare le tesi magistrali che approfondiscono il tema del doppio ruolo delle donne, divise tra famiglia e lavoro o gli effetti positivi di una bilanciata presenza femminile nelle aziende.
Oppure si può ricordare una persona con una Onlus, come quella creata da Giovanna Frattaroli, mamma di Fabrizia di Lorenzo, assieme ad altri dieci volontari che si propone di promuovere e tutelare la cultura, l’arte, l’istruzione e la formazione, offrendo la possibilità ai giovani, in condizioni di disagio, tramite borse di studio, premi e stage di seguire le proprie ispirazioni.
La Maison de Bartek è il progetto che i familiari di Bartosz “Bartek” Orent-Niedzielski, hanno voluto creare a Strasburgo per creare uno spazio accogliente per incontri, scambi e attività culturali, educative e sociali. Ovvero la stessa filosofia della casa accogliente in cui Bartek ospitava ogni volta i ragazzi di Europhonica nelle loro trasferte mensili per seguire la sessione plenaria del Parlamento europeo.
La famiglia di Antonio e la sua ragazza Luana hanno deciso invece di creare la Fondazione Antonio Megalizzi per portare avanti il sogno del giovane direttore editoriale di Europhonica: fare formazione e informazione per far sviluppare, soprattutto nei giovani, una coscienza critica verso il mondo e il pluralismo delle fonti, un radicato senso civico e la partecipazione attiva alla vita democratica. Un progetto coraggioso in un mondo di hater, fake news e indifferenza.
Nel sito che ospita i servizi radiofonici e i testi di Antonio è stato da poco pubblicata l’iniziativa principale della fondazione: il progetto ambasciatori che permetterà a trenta studenti universitari di seguire un percorso di formazione finalizzato alla diffusione del lavoro della Fondazione. Dalla storia al funzionamento delle istituzioni europee, dall’impatto dell’Unione europea nelle nostre vite all’analisi di fatti di attualità, dall’identificazione di buone pratiche giornalistiche ad approfondimenti sul mondo della comunicazione. Gli ambasciatori riceveranno gli strumenti per organizzare attività a nome della Fondazione nelle scuole di tutta Italia.
Tradotto: far camminare nelle menti e nelle azioni di trenta ragazze e ragazzi la filosofia di Antonio, artigiano della parola che ha dedicato tutta la sua vita a contrastare le fake news e per sensibilizzare chiunque avesse intorno su tematiche di pubblico interesse. Ma anche a tradurre in modo pop l’eurocratese per ampliare il più possibile la platea di chi vuole conoscere l’Europa, prima di giudicarla. Il bando uscirà a gennaio.
A due anni dalla morte di Antonio è forse questo il modo migliore per ricordarlo: agendo nella comunità, come piaceva fare a lui. Un’altra delle tante regole d’oro del giornalismo è quella di non emozionarsi troppo per gli articoli che si scrivono. Spero perdonerete questa eccezione.