Una casellina, una preparazione, una storia. Ricette delle nonne e tradizioni gastronomiche regionali: L’Avvento sottoforma di piatti da preparare in famiglia, raccontati uno al giorno.
Nella terra tutta operosità, fabbrichetta e danée (dove nel primo lockdown è nato persino un gioco da tavolo con lo scopo di «fare soldi più dei concorrenti», googolare per credere), si bada alla sostanza. Anche a tavola, anche e soprattutto per le radici contadine che ancora sostengono le colline dolci della Brianza. Così lombarda, così a ridosso di Milano, eppure così precisa nel marcare le differenze dalla metropoli. Questa piccola storia di carni fieramente grasse e brodi veraci ci porta spediti a proporre un risotto alla monzese.
Non c’è, infatti, un piatto che si possa definire vero must del Natale brianzolo. Piuttosto, in marcia di avvicinamento al 25 dicembre finiscono spesso e volentieri in tavola i grandi classici della cucina contadina lombarda, come la casseula (trionfo di verze, cotenne, costine e salamini verzini) o la rusticiada (lonza e salsiccia cotte nella salsa di pomodoro). Il re lombardo della tavola di Natale, però, è il cappone ripieno, pollo maschio castrato e allevato all’ingrasso. Ecco, è il cappone che ci porta direttamente al risotto. Perché la cottura delle sue carni, grasse e scure, regala un brodo particolarmente ricco. Che fa la parte del leone nella preparazione del risotto con la luganiga alla monzese.
«Un brodo con degli occhi di grasso meravigliosi: ne bastano due mestoli per ottenere un risotto spaziale», spiega Giuliano Cesati, da 11 anni oste della Taverna dei Viandanti, eletto qui a nostro consulente almeno per tre buoni motivi: uno, agli stellati non è il caso di bussare perché poco rappresentativi (in Brianza abbiamo da lavorare, mica tempo di fare i fighetti); due, il suo locale è strategicamente collocato a Camparada, tra viale Brianza e viale Lombardia (a proposito di incroci culinari brianzoli-lombardi, troppa grazia); tre, è un appassionato vero che è andato a spulciare scaffali di libri di cucina del territorio e a cercar conferme tra gli anziani avventori (più poesia di così).
Dunque, prepariamo il risotto. Del brodo si è già detto. Poi, la luganiga. «Ha quasi lo stesso impasto della salsiccia, ma meno grasso. Mentre questa veniva insaccata con del vin brûlé per conferire sapidità, la luganiga no. Il solo brodo di maiale la faceva risultare molto meno intensa della salsiccia, così i contadini brianzoli la impastavano con del formaggio grana. Operazione che estraeva un sapore particolare». Se non la si trova nella sua versione originale, con il grana, si può seguire il suggerimento della Taverna dei Viandanti: «Basta comprare della salsiccia paesana, sbudellarla, re-impastarla con del Parmigiano o Grana Padano e poi farla tostare a tocchetti. Poi si sceglie un vino rosso di buon corpo, diciamo un Barbera da 13-14°, per sfumare». Si avviano le operazioni per il risotto vero e proprio: «Io scelgo un riso Vialone Nano, brutto da vedere per la difformità dei chicchi piuttosto grezzi, ma ancora autentico nel sapore, e che tiene bene la cottura. Suggerisco di tostare completamente a secco il riso, con soltanto un po’ di scalogno e una sfumata dello stesso vino rosso usato per la luganiga. Una volta sfumato, si inizia a cuocere mettendo a poco a poco il brodo di cappone – o di gallina. A metà cottura si aggiunge la luganiga tostata. Alla fine, una robusta mantecata con un po’ di grana. Se il brodo è quello giusto, il più delle volte non è nemmeno necessario correggere di sale». Attenzione: niente zafferano. Il risotto alla monzese è chiaro; nasce così, e forse l’introduzione successiva dello zafferano nella ricetta è stato un modo per imitare la più sciccosa versione cittadina milanese.
Qui preferiamo restare poeticamente contadini, con un ultimo suggerimento: abbondare con le porzioni. È tradizione: il giorno di Natale il risotto si preparava in dosi massicce per poterlo dare anche alle galline, e far festeggiare anche loro.