Si chiama «Metodo Zampini». Consiste in un’attitudine dialettica molto semplice capace però di schienare l’avversario in pochissime mosse. La sua filosofia di base è un misto tra la psicoanalisi e la lotta giapponese. Le sue applicazioni innumerevoli.
Zampini, ovviamente, non è l’inventore di questo metodo, che ha illustrissimi precedenti nella filosofia di ogni civiltà, e che è stato reso popolare nientemeno che dal Vangelo, quando Gesù risponde «Tu l’hai detto» alla domanda di Caifa se lui fosse il Re dei Giudei. Però Zampini è colui che ha introdotto il Metodo nell’infima pratica della polemica calcistica, giù nella fanga del tifo più sbracato, e per cotanto ardire, peraltro coronato da successi immediati, merita di dargli il nome. Il Metodo Zampini.
Funziona così: qualunque cosa tu dica, io la userò contro di te. Io non userò mai parole mie, io farò la mia parte esclusivamente con le tue parole, quelle che mi hai scagliato contro nell’intento di colpirmi, ferirmi, atterrarmi, mortificarmi, sconfiggermi. È evidente che più basso è il colpo, o anche il livello della zuffa, più questa pratica risulta micidiale.
Dalla psicoanalisi – quella seria, corretta – prende dunque la regola di non aggiungere parole al discorso, ma di lavorare con quelle che vi ha introdotto il paziente. Se un paziente lampantemente pedofilo un giorno pronuncia la parola «pedofilia», l’analista si mette a parlare di pedofilia: diversamente, pur con un paziente lampantemente pedofilo, non lo fa. Oppure, più frequentemente: parole e concetti che il paziente pronuncia e introduce con un certo intento e poi lascia cadere, dimenticandosi addirittura di averli trattati, vengono ripescati dall’analista e messi a valore in altri contesti, all’interno dei quali diventano decisivi e illuminanti. Questo per quanto riguarda la psicoanalisi.
Dalla lotta giapponese, come mio padre chiamava il judo, il Metodo Zampini prende l’abilità nell’utilizzare la forza che l’avversario ha impiegato nell’assalto contro di noi, rivoltandogliela contro. E qui è una questione di tempismo. Se infatti l’analista può ripescare in qualsiasi momento quelle date parole pronunciate nel passato dal paziente per rimettergliele davanti e produrre l’effetto desiderato, per il judoka non vi è che un unico istante nel quale la forza dell’avversario può essere ribaltata contro di lui.
Questa combinazione è il Metodo. È vincente. L’ha usato Cristo prima di salire sul Golgota, lo usa Zampini quando risponde ai fratelli Pisani.
Certo, la seconda caratteristica del Metodo, la tempestività, costringe il Massimo Zampini scrittore – dotato di una lingua ricca, acuta, elegante, levigata da anni di buone letture e pratica forense – a pubblicare praticamente solo instant book – se non, addirittura, instant poem – poiché, se gli argomenti che lui è così bravo a rivoltare contro i suoi avversari sono ormai dei classici e ricorrono ciclicamente, il momento giusto per farlo è sempre legato a un fatto d’attualità che nel giro di pochi mesi, o poche settimane, ma in alcuni casi anche di pochi giorni («spunta un video…») svanirà. Ecco perché, nel suo profi lo Twitter, Zampini scrive di sé «4 libri, pressoché identici, cambiando solo titolo e nomi dei protagonisti. Finale sempre uguale».
Be’, questo è il quinto. E il finale non è sempre uguale perché alla fine vincono sempre gli stessi (il verdetto del campo), né perché dopo aver atterrato l’avversario Zampini si metta a infierire su di lui fino ad ammazzarlo (la morte).
No: il finale sempre uguale è una risata. Catartica, per chi sta dalla parte di Zampini, e però, pur nel rosicamento, accettabile o come si dice oggi ricevibile, e in alcuni casi di persone illuminate addirittura godibile, anche dall’incauto della parte avversa che aveva pensato, con quelle parole, con quello slancio, di colpirlo. Di colpirci.
dalla prefazione di Sandro Veronesi a “3000 giorni con la Juve campione d’Italia”, di Massimo Zampini, Baldini + Castoldi, 2020