A volte esagera con i tempi. Alcune canzoni non sono del tutto azzeccate e “Deep down” è, secondo l’opinione di tutti, un riempitivo. Ma nel complesso “McCartney III” è un buon risultato. Per l’Observer è quasi una sorta di manifesto della «libertà di musica». Rolling Stone applaude la sua «spontaneità», mentre Variety ci trova «un sacco di “vere” canzoni», che potrebbero finire anche in album più seri.
Dopo i primi ascolti, l’ultimo lavoro dell’ex Beatle, composto in maniera solitaria durante la pandemia nel suo studio laboratorio del Surrey non scalda gli animi. Però – e questo è già un bene – non li infiamma nemmeno, come fecero a suo tempo “McCartney I”, del 1970 (album che si attirò le critiche dei suoi ex compagni) e il successivo “McCartney II”, composto dopo il suo arresto in Giappone.
Il primo fu uno scandalo per il suo tono leggero, quasi rilassato, nonostante la recente rottura dei Beatles. Il secondo non piacque per i suoi eccessi elettronici e per l’impiego esagerato del sintetizzatore. Eppure nonostante le stroncature, sono diventati due album di culto, cresciuti a dismisura nel cuore dei fan di tutto il mondo
Forse anche per questo, a distanza di 40 anni, il terzo tassello della trilogia è il momento dell’equilibrio. Suo e, vien da pensare, anche dai critici. Meglio evitare altre topiche.
Del resto a Paul McCartney la questione sembra interessare poco. Anzi, come ha dichiarato in un’intervista al New York Magazine, «mi ha sorpreso una cosa», cioè «che la musica non mi ha ancora stancato».
Si è divertito, insomma. Ha sfornato una canzone dopo l’altra senza mai pensare «“Sto facendo un album, devo essere più serio”». Più giocoso, più distratto. Secondo Uncut, quando si dimentica «chi è, riesce ancora a sorprendersi». Si vede fin dall’inizio: la canzone di apertura “Long Tailed Winter Bird” è un simpatico e irrisolto insieme di chitarre che arpeggiano su una robusta linea di basso. Apre e detta il passo: a seguire le altre 10 canzoni, tutte un po’ anarchiche, esuberanti e divertite.
La meno convincente è forse “Lavatory Lil”, quasi un pezzo da suonare al pub a metà serata. Meglio i quasi nove minuti di “Deep Deep Feeling”, un intreccio di falsetto, ritmi cangianti, tanti passaggi acustici e qualche citazione dei Beatles che furono (“Strawberry Fields Forever”). Per il Guardian «potrebbe essere la sua migliore degli ultimi 10 anni». Ma ci si può soffermare anche su “Slidin’”, inno alla libertà in stile Seventies forse un po’ troppo programmatico, e senza dubbio “The Kiss of Venus” accompagnerà qualche serata romantica, con il suo andamento dondolante e un pizzico di profondità.
Piace molto anche “Seize the Day”, giudicata autentica (forse in modo frettoloso) per il suo modo di raccontare l’invecchiamento. È pur sempre una celebrità che, nei suoi tempi migliori, suscitava grida isteriche nella folla e che, ricorda con amarezza, «cold days come and the old ways fade away». L’unico spazio concesso alla nostalgia: perché «I’m OK on a sunny day/ When the world deserves to be bright».
Consolatorio, forse. Ma anche di buon augurio: per questo motivo il Telegraph lo ha incensato: l’album migliore «nell’anno peggiore». E chissà se, in futuro, non si dimostrerà la valutazione più esatta.