La stufa è fatta con un vecchio bidone riempito di braci. È l’unico modo che hanno i braccianti agricoli per scaldarsi. È una domenica pomeriggio di fine dicembre a Locri. Qui normalmente c’è il sole anche in questo periodo dell’anno. Oggi piove e fa freddo. Ai bordi di un campo, sei ragazzi africani rimettono a posto secchi e attrezzi nel furgone che li riporterà a Rosarno, sulla costa tirrenica, dove vivono. Hanno passato la giornata a raccogliere arance per un produttore locale. Circa 50 cassette a testa. Sono tutti giovani, 22-23 anni in media, ma la fatica di una giornata di lavoro gliela si legge sul volto.
A differenza di altri, loro sono fortunati: di recente sono stati messi in regola e assunti con un vero contratto per lavoratori stagionali. Lavorano non più di 8 ore al giorno e la paga è dignitosa, 50 euro con i contributi. Merito di NoCap, l’associazione fondata da Yvan Sagnet, ex bracciante lui stesso, arrivato dal Camerun nel 2007 e oggi in prima linea per i diritti dei lavoratori e il contrasto del caporalato.
NoCap è arrivata in Calabria da poco, quarta regione dopo la Puglia (dove il progetto è nato, circa un anno fa), la Sicilia e la Basilicata. Qui però siamo in un contesto diverso: il 2020 marca i dieci anni dalla famosa rivolta che vide centinaia di lavoratori immigrati e sfruttati nella piana di Gioia Tauro ribellarsi a condizioni di lavoro disumane e al mancato rispetto dei diritti.
«Qui, da dieci anni a questa parte, non è cambiato molto. A differenza di altri settori, la ’Ndrangheta controlla direttamente il lavoro e possiede i terreni, il 30-40% del totale», spiega Yvan Sagnet a Linkiesta. Sarebbe sbagliato però pensare che tutto dipenda dalla mafia: i cosiddetti caporali, spesso, sono agricoltori per i quali la concorrenza sui prezzi dei prodotti è tale che l’unico modo per continuare a lavorare è abbassare i compensi ai lavoratori. Il confine fra abuso e necessità può essere molto sottile.
Per questo NoCap si occupa di tutta la filiera, non solo dei diritti dei lavoratori impegnati nella raccolta, ma anche del sostegno agli agricoltori e al contrasto della corsa alla competitività sui prezzi, attraverso il varo di accordi specifici con le catene della grande distribuzione, «che così non hanno più alibi per sfruttare i lavoratori», puntualizza Sagnet. I prodotti con il bollino di sostenibilità NoCap, ormai, sono diffusi in tutti i supermercati del gruppo MegaMark e Despar, con diverse insegne sia al sud che al nord del Paese. Chi li compra sa che dietro al prezzo c’è il rispetto tanto dei braccianti quanto delle aziende, un circolo virtuoso anche se ancora limitato nei numeri.
«Su 450mila lavoratori dell’agricoltura che i sindacati ci dicono essere sfruttati, in un anno noi ne abbiamo regolarizzati circa 400», spiega Sagnet. Il punto fondamentale, però, non è solo il contratto, ma anche il trasporto e l’alloggio. Soprattutto quest’ultimo pone una sfida non da poco. «L’Italia ha un patrimonio immobiliare immenso, anche in questa zona di alloggi sfitti ce n’è in abbondanza», dice ancora il presidente dell’associazione.
Il problema delle tendopoli, dove le condizioni igieniche e di sicurezza sono indecenti, si è aggravato con il coronavirus: «fortunatamente non ci sono stati grandi casi fra gli abitanti delle baraccopoli, solo un piccolo focolaio a Borgo Mezzanone, in Puglia, dove però l’isolamento ha funzionato. Il problema è che le persone continuano a vivere in condizioni inaccettabili e con altissimi rischi: quand’è che ci si renderà finalmente conto che bisogna lavorare sulla prevenzione, invece che aspettare, come al solito, che succeda qualcosa?», chiede Sagnet.
Prevenzione è parola chiave non solo in un contesto di pandemia, ma un termine che ben si applica anche allo sfruttamento in agricoltura. «La legge anticaporalato del 2016 è stata un passo avanti, ma arrestare gli sfruttatori non risolverà il problema. C’è da fare una programmazione e mettere strumenti e strutture a disposizione dei lavoratori stagionali, a partire proprio dalle case, e poi sulla parte economica, mettendo i produttori in condizione di vendere a prezzi decenti. Ma oggi non c’è un approccio politico di sguardo rivolto al futuro», puntualizza Sagnet.
Nello Navarra è un agricoltore di Rosarno che da 15 anni fa parte della cooperativa “I frutti del sole”, che unisce una decina di produttori tra le province di Reggio Calabria e Vibo Valentia. Da diversi anni ormai la cooperativa ha messo in piedi un progetto, SOS Rosarno, che punta proprio a garantire ai braccianti condizioni di lavoro accettabili, mentre l’associazione Chico Mendes, attiva sul fronte del commercio equo-solidale, si occupa del trasporto e di fornire gli alloggi. È tramite questi attori che NoCap è arrivata anche in Calabria, ed è proprio la cooperativa ad aver assunto i sei ragazzi del campo.
«È un progetto che ben si sposa con la filosofia che noi qui portiamo avanti da anni. Quando Yvan ci ha proposto di collaborare, abbiamo subito accettato», racconta. La sua azienda è specializzata in clementine, arance e limoni. L’agricoltura biologica è punta di diamante della produzione della cooperativa, che commercia molto anche con i circuiti a chilometro zero, riuscendo a vendere a prezzi contenuti rispettando i diritti, oltre che con la grande distribuzione.
Con il Covid-19, però, il lavoro si è ridotto drasticamente. «Se prima raccoglievamo qualche migliaio di chili di frutta in un giorno, invece ora ne facciamo poche centinaia. Per questo invece che assumere 8 ragazzi, ne abbiamo potuti prendere solo sei per la stagione», spiega Navarra. Complice la crisi innescata dalla pandemia, i consumi si sono contratti, e ora parte del prodotto, il 50-60%, resterà invenduto.
«Forse un anno di magra non basta a far fallire un’azienda agricola, perché comunque abbiamo continuato a lavorare, ma se dovesse andare così per due o tre anni, non sono così sicuro della nostra sopravvivenza», dice Navarra. Gli aiuti dello Stato durante la prima fase della pandemia non hanno fatto differenza. «Se sei un’azienda che normalmente fattura 20mila euro all’anno, che te ne diano 600 al mese va bene, ma di certo non ti cambiano la vita», puntualizza il produttore.
Nemmeno la mafia fa più gli stessi affari di prima. «Ormai i nostri sono prodotti molto poveri, per cui questi personaggi oggi si occupano anche di altro. Lo sfruttamento è dato soprattutto dai prezzi bassi, se vendi arance a 6 centesimi al chilo non hai margini», spiega Navarra. «Noi siamo privilegiati perché battiamo la strada della sostenibilità umana ed economica da anni, abbiamo una rete consolidata con gruppi di acquisto in tutta Italia. Ma non è così per tutti».
La cooperativa è stata appunto creata per avere una maggiore leva economica. «Come singoli produttori non saremmo riusciti a vendere, da solo non hai nessun potere contrattuale, e la mentalità delle multinazionali è di massimizzare il profitto, quindi il produttore è sempre penalizzato. Così, invece, ogni socio sa quali sono i costi e i benefici. Non ci sono stipendi galattici e la cooperativa, quando va bene, chiude in pari, ma almeno riusciamo a sopravvivere».
La ripartenza, qui come nel resto del Paese, non potrà però passare solo dai bonus e dai finanziamenti a pioggia. «Io penso che sia giunto il momento di programmare, anche su come è ridotta la sanità nel Mezzogiorno. Bisogna dare risposte a persone e interi territori», dice Sagnet. Gli fa eco Navarro: «Ci dovrebbe essere una redistribuzione del lavoro e la possibilità di fare investimenti. Se spendiamo miliardi per Alitalia, oppure rifacciamo l’acciaieria di Taranto ma solo per salvare qualche migliaio di posti di lavoro, saranno sempre i soliti noti ad arricchirsi. Altro che crescita».
Considerando la centralità dell’agricoltura per il sistema e il fatto che la manodopera è per il 90% straniera, serve soprattutto un impianto che valorizzi il lavoro e il rispetto dei diritti. «La sanatoria avrebbe potuto essere una buona idea, ma ha avuto un impatto limitato. Su 100-150mila persone che avrebbero potuto ottenere il permesso di soggiorno, alla fine solo 15mila sono state regolarizzate. Il problema è pensare di legalizzare le braccia piuttosto che i diritti: non si può legare la dignità delle persone solo all’aspetto economico, perché lo sfruttamento non si ferma lì», dice Sagnet.
Anche la tanto attesa modifica dei decreti sicurezza, nel complesso, è servita a poco. «È vero che i decreti Salvini hanno peggiorato la condizione giuridica degli stranieri, ma i migranti irregolari c’erano anche prima. Per sovvertire il sistema è un’altra la legge da cui bisogna partire, la Bossi-Fini. Il principale motivo per cui abbiamo cittadini sfruttati in questo Paese è che la permanenza è legata al contratto di lavoro. Bisogna cambiare tutto l’impianto, non solo la gestione dei flussi migratori», dice il fondatore di NoCap.
È una questione di sostenibilità non solo economica, e non soltanto perché i migranti fanno i lavori che gli italiani non vogliono più fare, mentre la terra ha comunque bisogno di manodopera. «Non si sono mai vincolati gli incentivi delle imprese alla qualità del lavoro e dei diritti, invece bisognerebbe iniziare a farlo», dice Sagnet. In una condizione dove la positività al virus e l’isolamento rischiano di far perdere il lavoro, un segnale forte sarebbe anche portare gli stessi vaccini tra i lavoratori e all’interno delle baraccopoli. Se in parlamento c’è chi si è già attivato per chiedere che i carcerati siano tra i primi destinatari delle vaccinazioni, insieme al personale sanitario e agli anziani nelle Rsa, infatti, dei migranti invece nessuno parla.
«Fortunatamente loro sono giovani, quindi meno a rischio di complicanze grosse per il virus», dice Navarra. «Ma il problema è soprattutto della clandestinità. Chi lavora ed è in regola da qualche parte è iscritto, l’assistenza ce l’ha. Il problema è degli invisibili, quelli che non potrebbero avere accesso neanche volendo. Ma se il vaccino c’è, deve esserci per tutti».
La stagione di raccolta, qui, durerà fino a marzo. I ragazzi hanno lavoro assicurato per 3-4 mesi, poi si vedrà. Per molti, l’idea è di trovare il modo di andare a nord, per poter fare altro. «La formazione sarebbe importante, invece se capiti nel centro di accoglienza sbagliato, ti lasciano senza fare niente per mesi e poi sei per strada», racconta uno dei sei ragazzi. «Io per esempio vorrei fare il militare, ma mi manca la cittadinanza, devo aspettare. Prima facevo il cameriere e l’aiuto cuoco a Torino, poi con il Covid ho perso il lavoro. Per questo sono qui, ma se mi chiedi se voglio raccogliere frutta per i prossimi cinque anni, ti dico di no».
Il furgone, ormai acceso, è pronto per partire. Rosarno li aspetta dall’altra parte. Una casa vera, almeno per qualche mese. Un inizio, per quanto piccolo. Un simbolo, anche se loro sono solo in sei. «Io da quando sono arrivato in Italia sono sempre stato in Calabria», dice un altro ragazzo. «Il razzismo mi fa più paura della guerra, ma qui mi piace molto. Se potessi, resterei per sempre».