Natale sotto le bombeln Siria il Covid è solo una delle tante emergenze umanitarie

Gli scontri tra le milizie regionali e i jihadisti continuano. La minaccia dell’Isis, che in Occidente è considerato liquidato, qui è ancora viva. Come spiega Sara Montinaro, autrice di “Daeş, viaggio nella banalità del male”, la guerra non è mai finita. Le risorse idriche sono centellinate e l’epidemia ha dato il colpo di grazia a una sanità già distrutta

AP Photo/Felipe Dana

Ci sono parti del mondo in cui il Covid è un problema secondario e dove in cima alle preoccupazioni, per esempio, c’è il rifornimento d’acqua. Nella zona del governatorato di Al-Hassake, nel nord-ovest della Siria manca da 28 giorni. La diga di Alouk, dalla quale dipendono 460mila persone (e che si trova nella parte di territorio controllato dai turchi) è bloccata. «È già successo altre volte durante l’anno, ma mai per un periodo così lungo», spiega Sara Montinaro, autrice di “Daeş, viaggio nella banalità del male” (Meltemi), che lavora in quella zona con la Mezzaluna rossa come project manager.

«Ci sono stati incontri con il dipartimento dell’acqua, a cui ho partecipato anche io e dove è stato deciso di assicurarne una parte, con le poche risorse a disposizione, ai panifici, agli ospedali e ai granai», cercando di distribuirla in modo omogeneo «nei vari quartieri».

Poi c’è il terrorismo. Nelle cronache occidentali l’Isis è ormai un ricordo, lì c’è ancora. Lo si vede nelle «operazioni speciali condotte in particolare dalle Syrian Democratic Forces (SDF), milizie curde] che arrestano vari componenti delle cellule», ma anche nelle «continue esecuzioni di leader locali», compiute dai terroristi stessi, che proseguono in modo sotterraneo la loro battaglia per il controllo delle zone.

Negli ultimi mesi ci sono stati attacchi organizzati e autobombe. Nei dintorni di Deir el-Zor si sono affacciati anche a chiedere il tributo alla popolazione locale. Secondo l’Osservatorio nazionale per i diritti umani in Siria ci sarebbero stati scontri anche nelle ultime ore lungo la strada tra Hama e Raqqa.

Le incursioni sono sparse lungo il territorio, a macchia di leopardo, e approfittano dell’eterna instabilità del Paese. Il quadro è complesso: «Assad controlla solo una parte della Siria. A nord c’è il Syrian National Army, che è un’emanazione della Turchia. A Idlib le forze qaediste. C’è la CETE, una nuova formazione, anche questa creata dalla Turchia e composta da mercenari jihadisti, che combatte nel Nordovest. Infine le milizie curde». E la guerra, con i bombardamenti turchi degli ultimi giorni ad Ain Issa, zona delicatissima per la definizione dei territori di influenza dei soggetti in campo, sembra essere ricominciata. Le restrizioni e le chiusure per il Covid hanno fatto il resto.

La percezione del problema, ricorda Montinaro, in un contesto in cui il pericolo reale è costituito dalle incursioni jihadiste o una bomba, è molto bassa. «Al momento, nella zona in cui operiamo noi si sono registrati 7.777 casi, con 259 morti e 1102 guariti». Ma manca tutto: «Non abbiamo kit per tampone sufficienti, quindi i dati sono senza dubbio sottostimati» e per creare gli spazi «abbiamo dovuto lavorare nell’emergenza, adattando alcuni vecchi spazi abbandonati a ospedali. I ventilatori per le terapie intensive erano cinque. Ma è come se non ci fossero. Per questo lavoriamo soprattutto sui casi moderati».

La maggiore preoccupazione sono i nuovi venti di guerra. Come racconta lei stessa nel suo libro, gli ex combattenti dell’Isis, comprese le donne, «sono convinte che, in qualche modo, lo Stato Islamico ritornerà». A differenza dell’Iraq, dove i militanti dell’Isis sono condannati a morte, in Siria vengono tenuti nelle prigioni, le loro famiglie nei campi profughi. Il processo di recupero di questa parte della popolazione, se mai avverrà, sarà lungo.

Oltre che complicato dalla posizione ambigua di alcuni protagonisti. Nel suo libro Montinaro punta il dito contro le responsabilità della Turchia: «Mi limito a mettere in fila i fatti. Le cosiddette “spose di Daesh”, cioè le donne dell’Isis, sono state aiutate a fuggire dai servizi turchi. La CETE, che è emanazione turca, raccoglie alcuni ex miliziani e, addirittura, li disloca su altri fronti come la Libia e l’Azerbaigian. Poi c’è la questione del petrolio: fin dai tempi della sua formazione lo Stato Islamico lo ha commerciato, in maniera clandestina ma documentata, con la Turchia. E anche la porosità dei confini: nel corso degli anni, lungo le frontiere della Turchia sono passati almeno 45mila jihadisti, indisturbati».

Non c’è insomma da star tranquilli: gli attacchi continuano, la guerra non finisce e la carenza di acqua va a dare il colpo di grazia a una zona dove la situazione sanitaria è al limite. Sono, insomma, problemi di proporzione diversa rispetto a non poter passare, per un anno, il Natale con gli zii.

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