Tutti ne parlano, tutti ne scrivono, tutti ne discutono: SanPa – la mini docu-serie firmata da Gianluca Neri, Carlo Gabardini, Paolo Bernardelli; diretta dall’italo-britannica Cosima Spender e uscita su Netflix lo scorso 30 dicembre – è senz’ombra di dubbio il “caso” di inizio anno. Le vicende di San Patrignano, la comunità terapeutica per tossicodipendenti più grande d’Europa, e del suo controverso fondatore Vincenzo Muccioli stanno infatti adombrando per un attimo (fortunatamente) le polemiche legate a virus, vaccini e compagnia cantante, riaprendo una parentesi di storia italiana fin troppo spesso data per scontata e dimenticata.
Non è questa la sede per un acceso dibattito circa la bontà del metodo Muccioli, delle sue intenzioni e delle sue azioni; nemmeno lo è per una recensione delle cinque puntate che compongono SanPa (spoiler: è ottima, del tipo che finora nel nostro Paese non era mai stato pensato e confezionato nulla di simile). Ma dato che di cibo trattiamo, sarebbe imperdonabile non passare in rassegna ciò che rappresenta San Patrignano da un punto di vista enogastronomico, un universo complementare a quello della comunità di recupero, che lo completa e allo stesso tempo l’arricchisce, aprendolo anche verso il pubblico.
Prima d’iniziare, è necessario fare un passo indietro: a metà degli anni Settanta, Vincenzo Muccioli si trasferisce in un piccolo podere nel comune di Coriano – sulle colline riminesi – di proprietà di sua moglie. Lì nel 1978 accoglie il primo ospite, e l’anno dopo viene costituita la Cooperativa di San Patrignano che ha come suo obiettivo principale fornire assistenza gratuita ai tossicodipendenti. Nel 1991 San Patrignano è riconosciuta come Fondazione ed Ente Morale dallo Stato, in seguito all’atto con cui i Muccioli cedono in donazione la maggioranza del proprio patrimonio immobiliare alla comunità, che è vincolata ad utilizzarlo esclusivamente «per la messa a disposizione gratuita di beni, servizi e iniziative in favore delle persone emarginate e tossicodipendenti».
Accanto alla Fondazione c’è la Società Cooperativa Sociale, il cuore di San Patrignano, che «promuove, senza alcuno scopo di lucro, attività socio-assistenziali, culturali, formative e di supporto all’istruzione scolastica per il recupero da ogni forma di emarginazione, ciò in un contesto di struttura liberamente e democraticamente autogestita, che si avvale in modo prevalente delle prestazioni personali e mutualistiche, volontariamente e gratuitamente rese dagli Associati stessi». Il terzo ente è la Società Agricola Cooperativa Sociale, che «Persegue l’inserimento lavorativo delle persone che hanno concluso il percorso riabilitativo attraverso la gestione di diversificate attività di agricoltura sociale: coltivazioni, allevamenti di animali e trasformazione dei prodotti derivati». Infine, s’aggiungono l’Associazione San Patrignano Scuola e Formazione (costituita nel 2004) e l’Associazione Dilettantistica Polisportiva San Patrignano, iscritta nel Registro del C.O.N.I..
Come si sorregge un microcosmo del genere, che non riceve né rette dalle Asl, né soldi dagli ospiti? Principalmente attraverso i social bond; il microcredito per sostenere le imprese dei ragazzi che terminano il percorso riabilitativo; le donazioni e i contributi; i laboratori e l’alimentare. Nel 2017, i ricavi della comunità hanno raggiunto quota 27.375.000 euro, di cui quasi i 2/3 – il 65,9%, più di 18 milioni di euro – provenienti dalle attività produttive di San Patrignano.
Andando con ordine, i vini (spumanti, bianchi e rossi):
La storia della cantina di ha origine a fine anni Settanta, con l’arrivo dei Muccioli a Coriano. All’inizio si tratta di vini semplici – sangiovese e trebbiano – la vendemmia è manuale e pigiatura con i piedi, un torchio e cinque botti di legno. Col tempo i vigneti (situati sulle colline di Rimini a un’altitudine media di 200 metri sul livello del mare, a pochi chilometri dal Mare Adriatico e dal monte Titano) si estendono fino a superare i 100 ettari, la voglia di sperimentare e tanta e a metà anni Novanta avviene la svolta: il vino acquista valore e corposità. Trasformarlo in un’eccellenza del territorio per i ragazzi diventa una sfida. Si impiantano nuovi vigneti, con uve merlot, cabernet sauvignon e cabernet franc e si rinnovano le vigne di sangiovese; cresce la densità, fino a 6.600 – 7.200 piante per ettaro. Si mettono inoltre a dimora chardonnay e sauvignon blanc, che affiancano una produzione peculiare (e premiatissima) di sangiovese, che acquista un’identità tutta sua, risultando più morbido, suadente, con tannini più dolci, tanto da essere ormai conosciuto come il Sangiovese di San Patrignano. La produzione vinicola annuale ammonta a 550 – 650.000 bottiglie, con una distribuzione capillare in tutto il mondo; la Direzione tecnica è affidata all’enologo Luca D’Attoma, dopo la storica conduzione di Riccardo Cotarella che ha guidato la cantina di San Patrignano per circa 20 anni.
I tre laboratori di trasformazione (caseificio, macelleria-norcineria e forno, con la guida del grande maestro panificatore Giuliano Pediconi) annoverano importanti clienti nella grande distribuzione – vedi alla voce Conad – e a livello Ho.Re.Ca. Nel 2015, riporta il Corriere della Sera, al pascolo c’erano 400 capi bovini, più 62 di razza chianina¸1.600 invece i suini. Nel caseificio entravano 1.100.000 litri di latte all’anno per uscirne trasformati in squacquerone, ricotta e caciotta. Il miele nasceva in 60 arnie, con una produzione pari a 1.100 chili: l’oliveto di Coriano forniva 26.623 chili di olive spremute in 3.155 litri di olio; a Cecina invece il rapporto è di 21.428 chili per 2.803 litri (l’Evo proviene dal primo, il Paratino dal secondo). Nel 2020 il lancio del nuovo e-commerce SanPa Shop – dove è possibile acquistare i salumi, i formaggi, i prodotti da forno dolci e salati, i lievitati per le ricorrenze e, ovviamente, i vini –, versione online di un altro progetto di successo, SP.accio.
SP.accio è la pizzeria e il ristorante di San Patrignano, nonché il negozio ‘fisico’ che accoglie tutti i prodotti a filiera corta e i manufatti realizzati dai ragazzi della comunità. La pizza, una delle più buone d’Italia, è impastata con lievito madre e farcita con ingredienti di alta qualità e a chilometro zero, di cui s’avvale anche il ristorante. Molti dei formaggi, dei salumi, la chianina, le verdure, il vino e l’olio provengono dai campi e allevamenti di San Patrignano; per tutto il resto ci si avvale di piccoli produttori certificati e di presidi slow food. Nato nel 2008 e ospitato in un’affascinante ex stazione di posta settecentesca, SP.accio da subito è stato la vetrina della comunità e il banco di prova dei suoi ospiti. Il lavoro dei ragazzi è diventato riscatto e testimonianza del loro percorso: per parecchi la cucina e la sala sono stati la prima tappa di un percorso verso la maturità e l’equilibrio; per alcuni, SP.accio è stato anche il trampolino di una realizzazione professionale. «SP.accio riflette quello in cui tutta la comunità è impegnata: dedicarsi a chi chiede una seconda opportunità», spiega Antonio Tinelli, responsabile prevenzione. «Aiutare i ragazzi a riconoscere le proprie difficoltà, i bisogni, le esigenze permettendo loro di ritrovare stabilità e di riappassionarsi così alla vita. Questo fa la differenza tra il ragazzo che entra, fragile, distrutto e la persona che ne esce dopo un percorso terapeutico. Imparando così a reinserirsi nella società con delle capacità relazionali e dei valori che lo rendono stabile e affrancato da qualsiasi tipo di problema».
Ultimo, ma non meno importante, l’Agriturismo Gastronomico Vite, guidato dall’Executive Chef Riccardo Agostini – cresciuto professionalmente sotto la grande scuola di Gianfranco Vissani e da molti anni premiato per il suo ottimo lavoro al Piastrino, ristorante stellato gestito in proprio a Pennabilli – e dal Resident Chef Federico Polito, la mano talentuosa perfetta per concretizzare le idee culinarie di Agostini. Le materie prime di filiera sono alla base dell’ideazione di ogni piatto realizzato; minimo comun denominatore, esattamente come da SP.accio, è l’altissima qualità: dalle carni agli ortaggi, fino ai formaggi ai vini e agli oli, tutti provenienti dalla comunità. L’agriturismo gastronomico racchiude in sé l’idea di una cucina diversa, capace di inventarsi, di giocare pure restando accessibile e saldamente ancorata alle origini. Il risultato sono piatti che hanno il sapore del comfort food e la fragrante vivacità dei prodotti di filiera, in cui la cura minuziosa dei sapori e degli aromi va a braccetto con l’esercizio creativo di lavorare con le tipicità del territorio in chiave contemporanea.
«Buono due volte»: è questo uno dei valori alla base dell’universo enogastronomico che gravita attorno a San Patrignano. Nonostante quelle «due volte» sembrino, viste da qua, molte, molte di più.