Iniziano così tutte le ultime volte. Le ultime trasferte in ogni città, le ultime sfide con le varie franchigie NBA, contro ognuna delle quali Kobe ha segnato quaranta punti almeno una volta, unico nella storia oltre a Bob Pettit a riuscirci. Più significativo di altri è forse l’ultimo incontro con gli storici rivali di Boston, contro cui Kobe segna trentaquattro punti, comunque insufficienti a evitare la sconfitta.
E intanto il 13 aprile 2016, data in cui si concluderà la stagione dei Lakers, allo Staples Center contro gli Utah Jazz, si avvicina, e l’America intera, che partita dopo partita sta scoprendo una devozione nei suoi confronti di cui egli stesso probabilmente era inconsapevole, si raccoglie attorno a un’attesa ogni giorno più commossa.
La cerimonia d’addio è di quelle in grande stile. È Hollywood che si fa carico di creare un tassello di storia collettiva, un momento indimenticabile non solo per Kobe ma per chiunque voglia partecipare dagli spalti o da casa. Alle estremità del parquet dello Staples Center sono stampigliati un 8 e un 24 enormi, come a coprire l’intero arco della sua vicenda sportiva e umana. Nel pre-partita vengono proiettati video struggenti delle sue imprese più memorabili, poi a prendere parola al centro del campo è Magic Johnson, che lo ringrazia per i vent’anni spesi nelle fila dei Lakers, per i titoli NBA conquistati e per i record individuali di franchigia e assoluti raccolti. Il supertifoso Flea, dei Red Hot Chili Peppers, suona con il suo basso distorto una versione di “The Star-Spangled Banner” che evoca quella di Jimi Hendrix a Woodstock, e infine può cominciare la partita.
Già, la partita. Sembrerebbe la cosa meno importante, in una giornata simile. I Jazz hanno battuto tre volte su tre i Lakers quest’anno, l’ultima con un oltraggioso scarto di quarantotto punti e Kobe fermo a cinque punti personali, ma cosa importa anche se dovessero vincere il quarto scontro stagionale con lo stesso distacco? La gente vuole solo riempirsi gli occhi della presenza di Kobe, assaporare ogni suo secondo in campo, senza controllare il tabellone.
Durante la presentazione delle squadre, Kobe deve trattenere le lacrime, arricciando le labbra come già lo si è visto fare decine di volte quando le emozioni rischiavano di travolgerlo. Il suo inizio di gara è infatti contratto. I primi cinque tiri sono tutti errori. Lentamente però l’adrenalina entra in circolo, e Kobe penetra nella sua zona. Dopo una bella stoppata in difesa corre in transizione e segna il primo canestro della sua serata, a cui ne seguono altri quattro consecutivi, di cui uno con fallo e l’ultimo da tre punti. Alla fine del primo quarto è a quota quindici punti. L’inizio del secondo è come da tradizione quello in cui riposa in panchina, e i Jazz ne approfittano per allungare nel punteggio. A metà gara sono avanti di quindici, 57-42.
Nella seconda metà gara, Kobe non viene praticamente più tolto dal campo, la fatica e i dolori lo stritolano al punto che durante i time-out si estrania dal resto della squadra per sedere immobile, l’asciugamano sulle spalle, gli occhi persi nel suo paesaggio mentale ma allo stesso tempo posseduti dai soliti demoni. Perché la verità è che dentro la sua testa sta prendendo forma un’idea: lui quella partita vuole vincerla. Non conta niente, non interessa a nessuno, può risultare addirittura fuori luogo, ma perché non dovrebbe provarci? Ci ha sempre provato.
Alla fine del terzo quarto è a quota trentasette punti ma i Jazz sono ancora avanti di nove lunghezze. Già ora la sua prestazione è di gran lunga la migliore per una partita di addio nella storia della NBA, e da lì in avanti nella sovraimpressione televisiva non verrà più tolto il suo tabellino personale. Ma l’unico a cui non sembra interessare il mero dato individuale è lui. I quaranta punti arrivano con un tiro da tre in transizione, poi ci sono un paio di errori che potrebbero significare serbatoio esaurito. Il pubblico aspetta che venga richiamato in panchina, sono pronti a scattare in piedi per non si sa quanti minuti di applausi, ma non se ne parla. C’è una partita da vincere.
A 2’33’’ dalla sirena finale i Jazz toccano di nuovo i dieci punti di vantaggio, ed è qui che avviene l’esplosione del cuore del poeta: Kobe è fisicamente distrutto, ma lui è in realtà altrove, fluttua in un mondo delle idee completamente inaccessibile agli altri, e segna uno dopo l’altro dei canestri di puro pensiero e memoria muscolare, una serie impressionante, compreso l’arresto e tiro del vantaggio a poco più di trenta secondi dalla fine. Il suo tabellino personale a questo punto dice cinquantotto punti, che diventano sessanta con due tiri liberi a pochi secondi dalla fine. Ora sì, sul 101-96 Lakers, con la vittoria al sicuro e 4,1 secondi da giocare, Kobe può uscire dal campo. Come ultimo sguardo sul mondo non è male, no?
Ci vuole tempo, ai presenti, per capire a cosa hanno assistito. Una prestazione così mostruosa nei numeri – sessanta punti a referto, cinquanta tiri dal campo – è inconciliabile con la passerella d’addio di un campione. Ma una banale passerella d’addio di un campione è inconciliabile con l’anima di Kobe, ed è a quell’indole misteriosa che lui deve essere fedele fino all’ultimo.
Nelle parole di fine partita Kobe trova il modo di scherzarci su, dice che per l’intera carriera gli è stato rimproverato di non aver passato abbastanza la palla ai compagni, ma che stasera tutti continuavano a darla a lui perché tirasse, e allora ha cercato fiducia per segnare. Neanche il più mitomane degli sceneggiatori avrebbe mai potuto scrivere un finale simile, e neanche il più acerrimo dei detrattori potrebbe sostenere che Kobe abbia giocato quella partita come qualcuno dice facesse da giovane – e come Phil Jackson stesso una volta suggerì –, cioè di aver lasciato andare avanti nel punteggio gli avversari solo per divertirsi a vincere in rimonta. Si è trattato più semplicemente della sublimazione finale del suo significato di uomo, disteso in quarantotto minuti immaginifici di gioco.
«What can I say?» conclude il suo discorso di ringraziamento e commiato, al centro del parquet di Los Angeles che mai più calcherà, il mondo ai suoi piedi e Vanessa che lo aspetta con le figlie per l’abbraccio della vita che resta.
«Mamba out».
da “Kobe. La meravigliosa, incredibile e tragica storia del Black Mamba”, di Simone Marcuzzi, Piemme, 2021, pp. 240, € 16,90
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