Il rinvio della partita in programma nella notte tra i Chicago Bulls e i Boston Celtics è un segnale d’allarme per la Nba. È la quarta partita stagionale che viene posticipata e il rischio è che nei prossimi giorni, nelle prossime settimane, da qui al termine della stagione, ce ne siano altre. Molte altre. Dall’inizio della stagione – lo scorso 22 dicembre – lega di basket americano deve fare i conti con le difficoltà di organizzare una stagione di 72 partite – ridotta rispetto alle 82 solite – con squadre costrette a viaggiare per tutti gli Stati Uniti da costa a costa, giocando una partita ogni due giorni (a volte anche meno), con i casi di contagio che ancora registrano numeri molto alti: la scorsa settimana per la prima volta ci sono stati 4mila morti per Covid in un solo giorno negli Stati Uniti.
La scorsa estate la Nba era stata impeccabile nella ripartenza dopo il lockdown, con il meccanismo perfetto della bolla di Orlando: 21 squadre impacchettate a Disneyworld per 96 giorni, con circa 300 giocatori, più staff, medici, giornalisti, addetti alle pulizie e arbitri. Era filato tutto liscio, nessun rinvio in 172 gare. E non c’è stato un singolo caso di positività tra i giocatori.
Anche per il basket americano però fuori dalla bolla di Orlando l’equazione è decisamente più complessa. È stato così fin dall’inizio, quando la stella degli Houston Rockets era stato sorpreso in uno strip club alla vigilia della partita d’esordio con gli Oklahoma City Thunder, obbligando al rinvio dell’incontro.
Poi c’è stato il caso dei 76ers: lo scorso 9 gennaio la franchigia di Philadelphia ha avuto difficoltà a trovare il numero minimo di giocatori per poter affrontare i Denver Nuggets. Alla fine gli 8 giocatori necessari c’erano, solo che in lista hanno inserito un giocatore infortunato, che ovviamente non ha messo piede sul parquet.
Questo nonostante un protocollo di sicurezza già molto stringente: i test sono frequenti, i giocatori che risultano positivi al test devono stare in isolamento per almeno 10 giorni oppure risultare negativi in due test consecutivi ad almeno 24 ore di distanza. E per precauzione un giocatore che è stato a contatto con un positivo deve osservare un periodo di isolamento di alcuni giorni.
Non solo. Per questa stagione è cambiata anche la disposizione delle partite in calendario, cercando di ridurre al minimo i viaggi e gli spostamenti, quindi le occasioni di contagio. Una squadra in trasferta rimane nella stessa città per qualche giorno, per giocare due partite (in back-to-back, o con 48 ore di pausa) contro lo stesso avversario.
Il protocollo, a livello sanitario, ha però dimostrato di avere alcune incongruenze. Lo scorso sabato mattina, poche ore dopo la sfida con i Washington Wizards, Jayson Tatum dei Boston Celtics è risultato positivo al Covid ed è stato messo in quarantena. L’allarme a quel punto non è suonato per tutti gli avversari, ma solo Bradley Beal, la guardia titolare dei Wizards, in quanto giocatore “ad alto rischio di esposizione”. Non perché i due si siano marcati per tutta la partita, ma perché si sono fermati a fine partita a scambiare qualche battuta senza mascherina, per poi salutarsi con un abbraccio. A quel punto per le norme del contact tracing Beal è stato messo in isolamento e ha saltato la partita successiva – rientrando per quella di lunedì dopo i due tamponi.
Sempre venerdì scorso i Memphis Grizzlies hanno ospitato i Brooklyn Nets. Il centro titolare dei Grizzlies Jonas Valanciunas non è rientrato in campo dal terzo quarto in poi: durante l’intervallo la squadra ha ricevuto una comunicazione dalla lega per un potenziale contatto di Valanciunas con un contagiato. «I test hanno chiarito che non c’era nessun pericolo, è stato un eccesso di prudenza», ha detto a fine partita il coach dei Memphis Grizzlies Taylor Jenkins. Eppure nel primo tempo Valanciunas si era allacciato più volte con il centro avversario, aveva lottato per prendere posizione sotto canestro, era stato a contatto praticamente con tutti i giocatori dei Nets.
Ma il protocollo della Nba è disegnato su quanto espresso dal Center for Disease Control, cioè che il rischio di trasmissione si presenta quando un individuo ha avuto contatti stretti – entro una distanza tra il metro e mezzo e i due metri – per un totale di 15 minuti o più. Gli studi fatti della lega hanno certificato che i giocatori non rientrano nei parametri del Cdc, per cui tecnicamente la partita non è un fattore di rischio: un giocatore che risulta positivo ai test non è un pericolo per l’avversario affrontato 24, 48 o 36 ore prima.
Però il numero dei giocatori entrati nella lista degli indisponibili a causa del coronavirus aumenta, per gli staff tecnici è sempre più difficile trovare uomini da mandare in campo e le partite rinviate iniziano ad essere troppe. Per questo ieri c’è stata l’assemblea dei proprietari delle 30 squadre, con i dirigenti Nba e del sindacato dei giocatori della Nbpa, per discutere come di riorganizzarsi: l’obiettivo è migliorare il protocollo di sicurezza, rendendolo ancora più rigido.
Si parla di rivedere la durata degli allenamenti, le interazioni tra i giocatori prima e dopo la gara e restrizioni ancora maggiori sulle uscite dei giocatori e sull’uso della mascherina.
È stata ipotizzata anche quella misura che la Nba aveva considerato e poi tenuto nel cassetto: introdurre in calendario una pausa, di una o due settimane, proprio per limitare i danni entro fine gennaio, considerato il mese più difficile. Eppure appena tre giorni fa un portavoce della Nba aveva spiegato al New York Times che una soluzione di questo tipo non faceva parte dei piani: la sensazione è che anche quella lega che aveva dimostrato una sapienza e una capacità organizzativa ai limiti della perfezione con la bolla di Orlando stia procedendo per tentativi, e che una stagione da 72 gare in tutti gli Stati Uniti potrebbe essere ai limiti del proibitivo.
Non a caso negli Stati Uniti si sta parlando anche della possibilità di ricostituire la bolla dell’estate scorsa, come Sports Illustrated: «L’Nba non è nel panico per i risultati di questa settimana, la lega aveva messo in conto dei casi di positività. E si prevedeva che gennaio sarebbe stato tra i mesi più duri, dopo le vacanze di Natale. Ma cosa succede se le prossime settimane sono come questa? Cosa succede se l’integrità della regular season viene ulteriormente compromessa? Quando è il momento di tornare nella bolla?».
Ma ricostruire la bolla di Orlando non sarebbe un’impresa da poco. L’articolo firmato da Chris Mannix sulla rivista sportiva prosegue: «Coinvolgere di nuovo i proprietari delle franchigie potrebbe essere difficile. Il costo della bolla di Orlando è stato di circa 180 milioni di dollari. La maggior parte delle società non sta generando molte entrate e sborsare altri milioni per ricostruire un ambiente sicuro non è in cima alla lista di preferenze».
E non solo. La bolla del 2020 è durata circa tre mesi. Adesso si tratterebbe di giocare quasi una stagione intera più i playoff in quella condizione. Proprio il commissioner della Nba Adam Silver ha spiegato alcuni aspetti di quell’organizzazione rimasti in ombra per l’opinione pubblica ma assolutamente presenti per chi li ha vissuti: «I giocatori e gli staff delle squadre sono stati per molto tempo lontani dalle famiglie, lontani da casa, dalla loro vita. Hanno fatto ricorso a diverse soluzioni per affrontare questa situazione, compreso chiedere l’aiuto di uno psicologo per mantenere il controllo della salute mentale. Credo sia per una specie di senso di colpa, quello di chi mette se stesso davanti alla propria famiglia». Di soluzioni facili e immediate in grado di assicurare un regolare svolgimento del calendario non c’è. Nemmeno per la lega sportiva più organizzata del mondo.