Lo strapotere digitaleSospendere Trump non è censura, ma difesa della libertà di espressione

Indignarsi per la violazione del diritto di twittare, mentre il presidente semigolpista sta provando a far saltare la democrazia americana, è stravagante. Ma anche l’esatta istantanea dello spirito del tempo

jon-tyson, Unsplash

Il dibattito è surreale. Mentre Trump sta per essere processato per atti sediziosi e incitamento all’insurrezione dal Congresso degli Stati Uniti, il mondo crede sia più importante discutere della violazione del suo diritto costituzionale di fare la faccia feroce su Twitter, di diffondere panzane via social e di ricevere cuoricini dai retequattristi.

In ogni caso, benvenuti. Gli stessi analisti e commentatori e politici che per dieci anni hanno ignorato l’ascesa del maoismo digitale e lo strapotere di Big Tech, e che più di recente hanno fatto gli spiritosi sugli hacker russi, tipo quelli che Bibbiano o quelli che allora i Marò, senza avere ovviamente la minima idea di che cosa stessero parlando, ammaliati però dalla ritrovata adolescenza concessagli da Facebook, si sono resi conto che le chiavi del dibattito pubblico non possono essere lasciate in mano a un algoritmo segreto come la ricetta della Coca cola e custodito nei forzieri della Silicon Valley.

Non hanno cominciato a preoccuparsene a causa della proliferazione delle teorie cospirative, della propagazione dello stile paranoico in politica o della recrudescenza antisemita, e nemmeno perché c’è stato chi a furia di twittare ha cominciato a credere alle bufale più incredibili tipo quelle sui riti satanici di Hillary Clinton e poi è andata a sparare all’impazzata nello scantinato della pizzeria Comet Pong di Washington dove tali riti si sarebbero svolti oppure è stato eletto presidente della Rai.

Non si sono svegliati nemmeno quando il 6 gennaio un manipolo di fascisti aizzato da quattro anni di bugie, pardon «fatti alternativi», del Cialtrone in Chief ha preso d’assalto il tempio della democrazia americana, assediando i parlamentari e mandando all’obitorio cinque persone. Figuriamoci. L’indignazione intellettuale è grottescamente arrivata soltanto quando Twitter e Facebook hanno deciso di portarsi a casa il pallone e di non far giocare più col fuoco Donald Trump e la sua banda di truffatori e golpisti.

Solo a quel punto è arrivata la riprovazione per la censura e per altre parole a caso operata dalle corporation private, da parte di chi ha sempre sminuito il Grande Hack della Brexit e delle elezioni americane, courtesy dei servizi ex Kgb di Vladimir Putin, e di chi non si era accorto che qualcosa non andava nemmeno dopo l’installazione della Casaleggio Associati a Palazzo Chigi assieme ai valorosi amici della Bestia Analytica di Salvini.

Benvenuti, davvero. Ma ora è il caso di mettersi a studiare. Di studiare il modello di business delle piattaforme, che è il punto cruciale della questione, di conoscere il meccanismo della gabbia per cavie dentro il quale quel modello di business intrappola gli utenti e il discorso pubblico. E, anche, la concentrazione di potere, la mortificazione della concorrenza, l’abuso della posizione dominante, l’avvilimento dell’innovazione e tutto il resto di un’industria monopolista che controlla contemporaneamente l’infrastruttura, i contenuti, i dati, gli utenti, il commercio e il mercato pubblicitario, grazie ai quali macina fantastiliardi al giorno manipolando i comportamenti, spesso anche determinandoli, senza dover rispondere a nessuno di niente.

È ovvio che prima o poi, più prima che poi, specie ora che Trump è stato consegnato alla spazzatura della storia, si finirà con il separare infrastrutture e contenuti, come nella storia è successo con tutte le grandi concentrazioni di potere, dalle ferrovie all’energia fino ai servizi finanziari, liberando così la concorrenza e alimentando l’innovazione, fino a far cambiare il modello di business delle piattaforme digitali centrato sull’intrappolare gli utenti come cavie.

Detto questo, senza quindi nessuna difesa dell’operato delle piattaforme digitali, è surreale sostenere che la sospensione di Trump dai social costituisca una limitazione della libertà di espressione, non solo perché Trump può continuare e ripetere le sue fregnacce dal podio della Casa Bianca. Al contrario, togliere a Trump il megafono eversivo e spegnere la miccia con cui vorrebbe ancora far saltare in aria la democrazia liberale equivale semmai a fortificare la libertà di pensiero, la cui massima espressione, come è noto, consiste nella libertà di esercitare il diritto di voto, quello che Trump non riconosce, vuole cancellare e chiama alle armi per ribaltare.

Aver sospeso Trump dai social è un troppo poco e un troppo tardi da parte di ex nerd senza scrupoli che per anni hanno turlupinato i baluba del mondo occidentale con la barzelletta delle piattaforme neutre e non responsabili dei contenuti che veicolano, ma con tutti i limiti di una scelta tardiva che lascia ancora irrisolte le questioni cruciali, imbavagliare i messaggi golpisti di Trump e dei demolitori di quei dati di fatto senza i quali non può esistere una comunità civile è una scelta civile e morale in difesa della democrazia e del libero pensiero.

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