Tutti possono guardare dentro, perché il vetro è stato selezionato per non creare nessun riflesso. L’ambiente è ridotto all’essenziale, i muri sono stati scavati fino a far emergere le pietre in calcare, (poi sbiancate) e sul soffitto si scorgono le travi a sostegno del piano superiore.
È tutto un lavoro di sottrazione, quello che caratterizza la galleria parigina Pièce unique, in rue de Turenne, nel cuore del Marais. Tanto che le opere in esposizione sono solo una: un pezzo unico, appunto. Fino al 27 febbraio sarà Clay Baby (m.l.) dell’artista californiana Kaari Upson.
Il suo proprietario, il gallerista italiano Massimo De Carlo (ne possiede altre cinque: due a Milano, una a Londra, una a Hong Kong e una virtuale) ha ripreso l’idea dal celebre Lucio Amelio, che negli anni ’70 portò in Italia alcuni dei nomi più importanti dell’arte contemporanea.
Fu lui il primo che, nel 1988, creò una galleria – sempre a Parigi, ma in Saint Germain des Prés – per un’unica opera. De Carlo ha ripreso il concetto, acquistato i diritti e riproposto l’iniziativa.
Anche se sembra in linea con i tempi pandemici e le disposizioni Covid, le operazioni erano cominciate già nel 2019: Lo spirito era quello di pensare a uno spazio, a un tempo e a una dimensione in cui «il rapporto con l’opera d’arte fosse centrale», ha dichiarato a Le Monde.
«Le gallerie non smettono di crescere», acquisiscono sempre più opere, arrivano a standard «pachidermici». Questa fa l’opposto: «ristabilire una relazione speciale tra l’arte e chi la osserva».
Una necessità avvertita frequentando musei e spazi espositivi di piccole dimensioni. «Ti danno lo spazio giusto per concentrarti sui particolari e scoprire l’essenza del lavoro fatto, i movimenti del pennello, il suo pensiero, i colori».
È un contesto perfetto per stimolare la sensibilità dell’osservatore, che nelle grandi (e roboanti) mostre rischia di uscirne più confuso di prima.
Per realizzare gli interni De Carlo si è rivolto all’archistar giapponese Kengo Kuma, in genere impegnato in progetti di dimensioni colossali (è suo, per capirsi, il New National Stadium di Tokyo, in cui erano/sono previste le cerimonie di apertura e chiusura dei Giochi Olimpici), ma non disdegna lavori più concentrati.
Perché, spiega al quotidiano parigino, sono un buon modo «per fare sperimentazione, su cose in piccolo» le quali, se funzionano, potranno essere trasferite anche nei progetti più grandi.