Quando lo scorso dicembre una tempesta ha sradicato la piattaforma offshore Ivana D, poi ritrovata dopo un paio di settimane a 40 metri di profondità tra la costa veneta e quella emiliana, si è riacceso il dibattito sulle strutture usate per l’estrazione di idrocarburi lontano dalla terraferma.
Nell’offshore italiano ci sono 138 piattaforme, stando ai dati del ministero dello Sviluppo economico, di cui la maggior parte nell’Adriatico e qualcuna nel canale di Sicilia. Gli argomenti di discussione sono principalmente due: da una parte ci sono le piattaforme che hanno esaurito i loro giacimenti, che vanno riadattate o dismesse; dall’altra c’è la prospettiva di una transizione energetica che dovrebbe rendere obsolete queste strutture grazie a un graduale affrancamento da petrolio e gas.
Ma non è un discorso solo italiano: tutto il mondo ci sono circa 12mila piattaforme offshore, spesso sono demonizzate, viste come un pericolo per l’ambiente e uno strumento nelle mani di grandi compagnie che estraggono idrocarburi. Una percezione che recenti studi scientifici stanno minando alla base. «Molte piattaforme sono un bene per l’ambiente marino, aiutano l’ecosistema che si è creato intorno ad esse e sono ottimi candidati per diventare barriere coralline artificiali», dice a Linkiesta la scienziata marina Emily Hazelwood, che nel 2014 ha fondato l’organizzazione Blue Latitudes proprio per convincere le compagnie alla riconversione dei loro impianti offshore.
«Ci sono diversi fattori che rendono queste piattaforme un aiuto per la vita marina: di solito sono costruiti con metalli zincati, o comunque materiali molto resistenti che non si corrode e non si decompongono molto facilmente; poi sono estremamente grandi, quindi qui la vita marina può crescere e colonizzare la struttura anche con molte specie diverse; e spesso sono strutture articolate, l’ideale per attirare e far riprodurre diverse specie», spiega Hazelwood.
Ma non è lo stesso per tutte le piattaforme. Bisogna valutare caso per caso e non sempre ci sono le condizioni per la formazione di un ecosistema sano. A domanda specifica, Hazelwood risponde: «Non ho studiato l’impatto delle piattaforme al largo delle coste italiane, ma immagino che alcune ospitino molte delle specie autoctone che si trovano in quelle acque».
Nell’area offshore di Ravenna gli impianti dell’Eni, che sono lì da qualche decennio, hanno portato alla nascita di una filiera – raccolta, trattamento, commercio, ristorazione – di cozze selvagge (o cozze di Marina di Ravenna): vengono raccolte nell’ordine dei 10mila quintali l’anno e prima dell’immissione al consumo sono sottoposte ai controlli della Ausl sulla componente biologica, ai quali si aggiungono i controlli delle autorità competenti sulla gestione ambientale delle piattaforme Eni. È un’attività del tutto slegata da quella della piattaforma, ma sviluppatasi come attività laterale per la presenza di quel tipo di struttura.
È ovviamente un singolo esempio, un caso particolarmente positivo, poi le esternalità prodotte dalle piattaforme dipendono sempre da caso a caso. Nelle acque italiane il più delle volte i problemi sono legati alla qualità degli impianti. «La maggior parte delle piattaforme è stata costruita negli anni ‘60, e tra età anagrafica e scarsa quantità di risorse da estrarre conviene evitare problemi smantellando le piattaforme: nel caso di un incidente come quello della Ivana D si avrebbe una struttura enorme che si muove nel mare, che può tranciare cavi e fare altri danni», dice a Linkiesta Andrea Minutolo di Legambiente.
Negli ultimi anni, spiega Minutolo, si sono aperti diversi tavoli di discussione che hanno coinvolto il ministero per lo Sviluppo economico, le compagnie – soprattutto Eni e Edison – e le varie associazioni. Nel 2019 si è arrivati a un piano di decommissioning con linee guida emanate con Decreto interministeriale a febbraio 2019 per dismettere 34 delle 138 piattaforme italiane. Entro il 30 giugno di ogni anno, il Mise pubblica l’elenco delle strutture che devono essere rimosse e quelle che possono essere riutilizzate: in quest’ultimo caso i soggetti interessati hanno un anno di tempo per presentare istanza di riutilizzo.
Il governo Conte I aveva previsto una moratoria di due anni per congelare ogni nuova attività estrattiva e di ricerca negli ultimi. Ad agosto però scade la proroga della sospensione e molte associazioni chiedono una norma che blocchi definitivamente le attività estrattive nelle acque italiane: «Abbiamo bisogno di una rivoluzione energetica che renda l’Italia 100% rinnovabile, creando posti di lavoro e tutelando clima e ambiente», ha scritto Greenpeace in una nota.
Interrompere i lavori del settore offshore, però, non è così semplice. «Senza nuovi investimenti la produzione di gas domestico diminuisce e conseguentemente a risentirne negativamente è anche l’occupazione del settore», spiegano dalla Ravenna Offshore Contractors Association (Roca), che raggruppa le aziende ravennati del settore offshore.
Il presidente Franco Nanni dice che, prima del discorso occupazionale, c’è un interesse di natura economica ed energetica nel mantenere aperte le attività: «Oggi produciamo 2,8 miliardi di metri cubi di gas, il 50% di quello prodotto in Italia. Ma potremmo salire in un solo anno a 4 miliardi di metri cubi se riprendessero le attività attualmente bloccate. Il metano sarà la fonte energetica per la transizione e ne avremo necessità per ancora 50 anni. Non estraendo il metano italiano dobbiamo importarlo con maggiori costi, inquinando di più e togliendo lavoro alle aziende del settore».
Così Roca ha formulato alcune proposte per rivitalizzare l’economia di quel settore: si va dalla trasformazione delle piattaforme, con la possibilità di avere attività commerciali, centri meteo marini e altre attività. «Si potrebbe pensare anche alla realizzazione di un impianto di estrazione di sali o minerali dall’acqua di mare (a tale scopo è stato presentato un progetto per estrarre il magnesio dall’acqua marina); la costruzione di una stazione di rigassificazione (il gas liquido arriverebbe con navi, trattato sulla piattaforma e mandato a terra con la stessa sealine che trasportava il gas estratto nella precedente vita dell’impianto); infine si potrebbero installare pale eoliche e pannelli solari a bordo delle strutture dismesse», dice Franco Nanni.
Infine un’ultima proposta è quella di spostare gli impianti in dismissione per creare un reef artificiale adatto al ripopolamento marino, che avrebbe anche una funzione di attrazione. «Davanti alle nostre coste – spiega Nanni – non abbiamo isole, pertanto il reef d’acciaio diventerebbe una meta turistica di rilievo, come lo è oggi la riserva del Paguro, realizzata proprio sul relitto di una piattaforma affondata al largo di Marina di Ravenna. Un progetto di recupero in linea con quanto auspicato anche nelle sedi comunitarie che chiedono a gran voce di creare siti di interesse marino in Italia».
La riserva del Paguro citata dal presidente di Roca è forse una caso molto particolare. È il relitto della piattaforma di perforazione Paguro, costruita dall’Agip a Porto Corsini nel 1963 per l’estrazione del metano. Si trova a circa 11 miglia dalla costa, nei fondali al largo di Ravenna: una struttura artificiale collassata nel 1965 in seguito ad un’esplosione, con il cratere tuttora evidente sul fondale fangoso a sud del relitto. La struttura sommersa ha assunto il ruolo di artificial reef, una vera e propria scogliera artificiale la cui ubicazione, su fondali fangosi molto distanti da altre scogliere, rende il sito un polo di attrazione per la flora e la fauna marina. L’area diventata Sito di Rete Natura 2000 – un’area di 66 ettari – sostanzialmente coincide con la Zona di Tutela Biologica istituita dal Decreto del Ministero delle Risorse Agricole, Alimentari e Forestali del 21 luglio 1995.
E negli ultimi anni in tutto il mondo si sono moltiplicati i progetti di ristrutturazione delle piattaforme, alcuni vagamente ispirati alla breve esperienza dell’isola delle Rose – sembrerebbe. Gli architetti dello studio parigino Xtu, ad esempio, hanno ideato un progetto con cui vorrebbero dare nuova vita alle piattaforme petrolifere inattive trasformandole in ville ecologiche offshore. Mentre lo studio americano Morris Architects ne aveva proposto una versione molto più turistica, con la realizzazione di isole-resort di lusso, ecologiche e autosufficienti. Prima di veder realizzati progetti così avveniristici e complessi ci vorrà ancora un po’. Ma una riflessione attenta sul futuro delle piattaforme per l’estrazione di idrocarburi è necessaria già adesso.