Tra le molte immagini che ci porteremo dietro di questa pandemia, quando sarà finalmente finita, vi sarà quella dei colleghi dietro le tante finestre dei programmi di video conferenza e dei pulsanti del microfono e dell’audio da attivare e disattivare al momento giusto, onde evitare gaffe e figuracce con i capi e non solo.
Lo smart working e tutto ciò che esso comporta, nel bene e nel male, tra comodità e alienazione dai rapporti sociali, da nicchia per pochi in Italia è diventato quotidianità per la massa. Almeno in apparenza.
Perché se è vero che nel 2020 si è verificato un enorme aumento della sua adozione, è altrettanto vero che non ha interessato tutti. Ma secondo la Banca d’Italia il 12,8% degli uomini (era l’1,3% nel 2019) e il 16,9% delle donne (rispetto all’1,8% dell’anno precedente), perlomeno nel secondo trimestre, quello del primo lockdown.
Probabilmente già il fatto che secondo la percezione che è prevalsa queste percentuali sembrino basse indica che lo smart working non ha coinvolto la società in modo omogenea, ma molto di più quella parte che è più visibile, sui media e sui social, quella che costruisce le narrazioni e le percezioni. Fatta di lavoratori istruiti nei servizi avanzati.
E i dati lo confermano.
Quel 12,8% tra gli uomini diventa 15,7% tra i lavoratori con istruzione superiore, e il 39,7% tra chi ha una laurea. Nel caso delle donne laureate si arriva al 45,3%. Percentuale che crolla in caso di istruzione di base, ovvero licenza elementare o media. Solo il 2,5% degli uomini e l’1,5% delle donne possono lavorare da casa tra questi.
La ragione è nel settore di impiego. In quello dei servizi di informazione e comunicazione la maggioranza assoluta ha potuto fare smart working, così come in quelli finanziari. Si scende tra il 2015 e il 25%, a seconda del genere, per le attività professionali (es. gli avvocati), e al 10,1% nel caso degli uomini, nell’industria, mentre nella ristorazione e l’ospitalità o nelle costruzioni ovviamente non è stata una soluzione attuabile, così come nella gran parte dei servizi alla persona.
Una enorme differenza si è vista anche sulla base delle dimensioni delle aziende coinvolte. Tra le donne che lavorano in grandi imprese, sopra i 250 addetti, ben il 46% ha potuto andare in smart working, come il 29% degli uomini. E qui si nota probabilmente la differenza tra il lavoro maschile, più concentrato nell’industria, e quello femminile, più presente nei servizi.
Quanto più l’azienda è piccola tanto meno lo smart working è stato utilizzato, fino ad arrivare a interessare nelle micro-imprese, quelle con meno di 10 dipendenti, solo il 5,2% degli uomini e l’8,2% delle donne.
Il divario per numero di addetti è alla base di quello geografico. Non è un caso che nell’area dove non solo vi sono meno aziende di servizi avanzati, ma soprattutto mancano grandi imprese, ovvero il Mezzogiorno, siano meno coloro che hanno potuto lavorare da casa.
Solo il 6,1% degli uomini e il 9,5% delle donne. Meno di metà che al Nord, dove rispettivamente si è raggiunto il 19% e il 14,7%.
Questi dati probabilmente non sono sorprendenti, li verifichiamo nella vita di tutti i giorni, vedendo come nulla sia cambiato per i muratori all’opera in strada, mentre l’amico informatico da mesi può lavorare da casa.
Ma l’informatico e il muratore non solo non svolgono lo stesso lavoro, ma con tutta probabilità non hanno lo stesso stipendio e il loro posto non ha lo stesso livello di sicurezza.
Banca d’Italia mostra chiaramente come vi sia una netta differenza retributiva tra chi ha potuto lavorare da casa e gli altri. Del 5,8% nel complesso, che diventa del 6,7% tra le donne, del 7% al Nord, e dell’8,4% tra chi ha istruzione superiore. C’è, ma è più piccola, anche per i laureati, del 3,8%, forse perché molti lavoratori istruiti in settori non compatibili con lo smart working sono impiegati in ambiti tecnici comunque ben pagati.
Ma quello che è più significativo è il divario in termini di qualità del lavoro stesso. Per gli smart workers è più difficile (la probabilità cala del 9,5%) finire in cassa integrazione, in base alle statistiche sul ricorso a queste misure nel 2020. La cosa appare quasi ovvia soprattutto nel caso del primo lockdown, quando proprio il lavoro agile ha salvato dalla chiusura le attività che se lo potevano permettere.
Inoltre è meno probabile perdere lavoro o ritrovarsi nella situazione di cercarne uno. E questo vale quasi ovunque e per ogni tipologia di impiegato, anche se più al Sud, per gli uomini, e per i laureati.
Certamente questi vantaggi retributivi, fa notare Banca d’Italia, sono in parte compensati da un aumento effettivo delle ore lavorate. Molte aziende hanno chiesto un impegno maggiore ai dipendenti che non dovevano più affrontare il viaggio verso l’ufficio. Ma questo cambia poco la situazione.
È evidente come lo smart working si è inserito nella cronica situazione di disuguaglianza che caratterizza il nostro mondo del lavoro, acuendola. Non riguarda solo chi è occupato e chi no in un Paese dal tasso di occupazione cronicamente basso. Ma anche tra chi un impiego ce l’ha, chi lavora in settori con margini migliori e riesce a spuntare più facilmente un posto a tempo indeterminato, e chi è costretto a rimanere precario e a rischio in quelli più fragili. Questi ultimi sono anche gli stessi che sono stati più colpiti dalla pandemia, la ristorazione, il commercio, i servizi alla persona.
Guardare il dipendente statale, il quadro della grande azienda, il consulente della multinazionale, con il loro stipendio già più alto e la carriera già più sicura, ricevere anche il piccolo lusso di poter lavorare da casa, non è stato probabilmente molto piacevole per il cameriere del bar chiuso o per gli addetti alle pulizie di quegli stessi uffici vuoti.
Il disagio economico diventa sociale, lo abbiamo già visto. Chi è nelle stanze dei bottoni non può occuparsi solo di alleviare con interventi e ristori le conseguenze immediate di questo ulteriore aumento della disuguaglianza, ma ha anche la responsabilità di fare in modo che ne vengano tagliate le cause. Se alla fine sono così pochi coloro che hanno potuto lavorare da casa, soprattutto tra chi ha un’istruzione e un reddito più basso, è anche perché strutturalmente la nostra economia è maggiormente basata di altre sul piccolo commercio, sulla ristorazione, sulla micro-impresa.
È storia vecchia, gli investimenti in innovazione, in formazione e nel digitale anche a questo dovrebbero servire, a una riduzione della disuguaglianza strutturale tramite la sostituzione di posti di lavoro “fragili”, con quelli in settori robusti e a maggior valore aggiunto.
Una nota positiva però c’è stata. Ed è giusto sottolinearla. Riguarda le donne. Lo smart working le ha favorite. Tra di esse una percentuale maggiore ha potuto goderne. Anche se non sappiamo se ciò sia stato dovuto di più ai congedi garantiti ai genitori in occasione della chiusura delle scuole, che come spesso capita in questi casi, hanno coinvolto molto più le madri dei padri, oppure di più al fatto che le donne tendono a lavorare più nei servizi, quindi laddove lo smart working è più possibile, che nell’industria. Del resto anche nel commercio e nella ristorazione, ambiti dei servizi senza smart working, le donne sono molto presenti.
Anche in questo caso più che interventi contingenti (come i congedi parentali ad hoc) serve un cambiamento profondo, che nel caso del lavoro femminile passa per un aumento del tasso d’occupazione delle donne. E occupazione di qualità.