E pensare che una volta era solo fantascienza. Ghiacci polari che si sciolgono, gas serra che inquinano il pianeta, emissioni con effetti globali erano tutti argomenti considerati inverosimili (in certi casi satirici) che alcuni scrittori di fine ’800 e inizio ’900 impiegavano per imbastire trame di libri fantasiosi e a effetto. Non lo sapevano, ma erano pionieri di un un genere, il cli-fi (climate fiction) che si svilupperà più o meno un secolo dopo. Soprattutto, non sapevano che sarebbero stati profetici.
Il primo esempio, secondo il ricercatore Steve Asselin che al tema ha dedicato anche uno studio, è il libro “Fantasie plausibili” del 1824, dello scrittore e giornalista russo Faddej Bulgarin, che immaginava un futuro impero russo del 29esimo secolo in grado di scaldare la costa artica, sciogliere il permafrost che la copre e utilizzare tutta quella terra per la coltivazione e come località balneare di successo.
Una premonizione pericolosa, anche se nella fantasia di Bulgarin un evento di questa grandezza non avrebbe avuto consequenze sul resto del pianeta. Lo stesso pensavano cinquanta anni dopo anche scrittori come Byron Brooks nel 1893 e Lysander Salomon nel 1896, che nei loro libri immaginavano di trasformare il Sahara in terra arabile attraverso una manipolazione climatica.
Negli stessi anni esce anche “Il mondo sottosopra” (1889), dello scrittore francese Jules Verne, dove riprende gli stessi protagonisti di “Dalla Terra alla Luna” e li lancia in un nuovo progetto fantasmagorico: raddrizzare, con un colpo di cannone, l’asse terrestre. L’obiettivo era di eliminare le stagioni e determinare lo scioglimento della calotta del polo Nord, per sfruttarne le risorse di carbone sottostanti.
Era una satira dell’avidità umana, un’esagerazione. Ma anche la conferma dell’idea diffusa, allora come oggi, che per cambiare il clima l’essere umano avrebbe avuto bisogno di un intervento clamoroso, mentre sarebbe bastato il lento ma quotidiano rilascio di polveri e fumi nell’aria.
In altre opere, come “The Evacuation of England” (1908) di Louis Gratacap, il cambiamento climatico comincia a far paura. Ma – attenzione – non è coscienza ambientalista: si tratta di una mascherata denuncia geopolitica.
L’autore immagina che i lavori per la realizzazione dello stretto di Panama avrebbero modificato la Corrente del Golfo, compromettendo l’equilibrio dell’eccellente clima inglese, considerato ai tempi una delle ragioni del carattere virtuoso (e superiore) della popolazione britannica. Tolto quello, finirà l’impero: gli stessi inglesi smetteranno di essere valorosi, diventeranno «maleducati e pieni di pregiudizi», gli unici liberi si sposteranno in America, in Australia in Canada. Il potere capitolerà, per finire nelle mani di «socialisti e femministe». Invece gli americani avranno solo da guadagnarne, ottenendo una nuova potenza.
Tutti timori fondati (il declino imperiale era in atto da tempo), supportati da previsioni tutto sommato azzeccate: solo, il passaggio del testimone del potere globale avverrà qualche decennio dopo e non sarà dovuto alla nuova rotta commerciale aperta tra le due Americhe.
Ma “Il pretendente americano” (1892), di Mark Twain, è forse l’opera più interessante: qui il clima diventa oggetto economico. Il bel tempo viene modificato, venduto, prestato grazie a nuove tecnologie che permettono di calibrare temperature e precipitazioni. Un meccanismo che ricorda quello che sarà il sistema di scambio delle quote di emissioni di Co2 tra Paesi in piedi da diversi anni.
Insomma, tra interventi di geoingegneria per cambiare la natura (elemento che rivela l’ansia dell’epoca di dominare e controllare la realtà), paure geopolitiche per il cambio del clima, interessi economici per modificarlo o parcellizzarlo, il quadro dato dalla letteratura fantascientifica dei tempi è un ritratto più o meno esatto di quello che sarebbe avvenuto qualche tempo dopo.
Quello che emerge già in quelle opere e che, secondo Asselin, è forse il tratto più interessante, è proprio l’idea la consapevolezza che il clima possa essere un elemento di competizione geopolitica tra Paesi (e che Donald Trump, a distanza di un secolo, condivideva). Una concezione che, anche oggi, impedisce a tutti i Paesi di stabilire un cammino condiviso verso politiche comuni.