La fine delle universitàIn futuro le discipline umanistiche faranno a meno della storia e della filosofia

Un articolo su The Chronicle of Higher Education suggerisce di modificare i curricula degli atenei americani secondo le preferenze degli studenti. Si avrebbero corsi tematici come «giustizia sociale, studi sulle migrazioni, il problema di Dio», dove non importa quello che ricorderanno ma il modo in cui imparano a ragionare

Immagine di Honey Yanibel, da Unsplash

Solo i numeri bastano per lanciare l’allarme. Dal 2007-2008 negli Stati Uniti le iscrizioni ai corsi di Humanities, le discipline umanistiche sono crollate. In alcuni dipartimenti sono state dimezzate. In media è un calo che va dal 15% al 30%. E le ragioni, come dimostra questo articolo pubblicato su The Chronicle of Higher Education, a firma di Eric Hayot, sono numerose.

Ci sono questioni di soldi, i fondi tagliati, la sempre più diffusa convinzione (o consapevolezza) che i corsi di lettere diano pochi sbocchi lavorativi e, in generale, una crescente ostilità nei confronti di questo genere di istruzione. Poi, sostiene l’articolo, c’è anche un problema di marketing.

La tesi è che gli studenti, cioè i giovani in generale, sarebbero poco attratti da facoltà e proposte accademiche sviluppate intorno a campi disciplinari. «Ci si laurea in “Storia” perché si vuole sapere come si fa ricerca storica. Ci si laurea in “Inglese” perché si vuole conoscere la letteratura, la retorica, la scrittura creativa (questo è specifico delle università americane)», scrive.

Ma gli studenti non sarebbero più attratti da queste ipotesi. Non vogliono diventare professori e non vogliono imbarcarsi in un percorso formativo in cui l’unica ragione per studiare le materie umanistiche sia quella di insegnare le materie umanistiche. Un concetto condivisibile.

Segue allora una (forse meno condivisibile) proposta di riforma. «Perché allora, non riorganizziamo il curriculum di uno studente intorno a un nucleo di concetti centrali che, anziché fornire le basi di discipline specifiche, non forniscano le basi per argomenti, competenze e idee centrali nel mondo umanistico?».

Insomma, anziché studiare storia (antica, moderna, contemporanea) si dovrebbe suddividere l’insegnamento in skill (linguistico, di scrittura, di espressione) e in temi. E questi sarebbero «la giustizia sociale, gli studi sulle migrazioni, il problema di Dio», ma anche «la traduzione, il giornalismo, la ricchezza e l’uguaglianza, l’idea di bellezza».

Come è ovvio, ognuno di questi moduli comprenderebbe elementi da ogni disciplina: psicologia, economia, sociologia, filosofia. Gli studenti non limiterebbero le proprie ricerche alla singola disciplina, spazierebbero in altri campi, costruirebbero un proprio percorso che, da un lato, toglierebbe spazio a cattedre inutili o irrilevanti, dall’altro li attirerebbe verso forme di sapere e di impegno più consono ai propri interessi.

Il risultato? Non ci si laureerebbe più in “Storia Contemporanea” ma in “Giustizia sociale in America”. Gli studenti «sarebbero in grado di capire un problema, un processo, un evento e utilizzarlo per accrescere la loro capacità di ragionare in modo umanistico». Non si tratta di una abilità «che si acquisisce nel semestre del corso, ma nei successivi 20 o 30 anni di vita».

Tradotto: «Non mi importa troppo se gli studenti ricordino qualcosa dei libri che leggono con me o quello che imparano a fare nel giro di un semestre. Mi importa che nel giro dei prossimi decenni abbiano una vita più ricca e responsabile».

È una semplice proposta, certo, che con ogni probabilità finirà nel nulla. Rivela però una profonda debolezza del settore, dà il polso di un senso di smarrimento generale, una perdita di identità collettiva.

In poche righe si ammette non è importante ricordare ciò che viene studiato, o i libri che vengono consigliati, o le abilità che vengono acquisite (perché studiarle, allora?). Suggerisce che, in fondo, materie e corsi di studio consolidati da decenni se non secoli (anche la storia è un’idea, del resto, con una sua origine) possano essere stravolti nel giro di poco per venire incontro a mode momentanee e abbracciare presunte preferenze dei giovani.

Lo scopo stesso dello studio viene rimandato a un futuro vago, quasi escatologico, dove i futuri ex studenti non potranno forse affidarsi a competenze specifiche (che non hanno), ma sapranno fare collegamenti di fronte a un quadro. È la versione americana dell’antica formula applicata al liceo classico, cioè che «apre la mente».

Il problema è che la capacità di pensare «in maniera umanistica» dovrebbe essere un prerequisito per le università, ma si sa che non si può chiedere troppo. Tuttavia, collocarla come obiettivo di lungo periodo somiglia più che a una revisione dell’organizzazione, a una resa definitiva.

E se la proposta di curricula modulari con elementi presi da discipline diverse (psicologia, sociologia, diritto, storia, architettura) è senza dubbio interessante, e promette davvero di arricchire lo studente (o l’essere umano in generale), la sensazione è che andrebbe gestita con cautela. Per essere interdisciplinari di solito almeno una disciplina la si deve padroneggiare. Altrimenti è solo una macedonia. E la macedonia si mangia alla fine.

Le newsletter de Linkiesta

X

Un altro formidabile modo di approfondire l’attualità politica, economica, culturale italiana e internazionale.

Iscriviti alle newsletter