Il buio dopo la pandemiaCosa ne sarà dei grandi alberghi di New York (e dei loro lavoratori)

All’Hotel Pierre i dipendenti potevano contare su buone paghe e crescita sociale. Le restrizioni contro il Covid-19 hanno fermato tutto. Adesso si affaccia il problema dei debiti, mentre tutto rimane ancora bloccato

AP Photo/Frank Franklin II

A guardare i corridoi vuoti, le stanze troppo spaziose e il salone da ballo in via di ristrutturazione, si fatica a ricordare le atmosfere affollate e festose dell’Hotel Pierre, glorioso cinque stelle della Fifth Avenue di Manhattan.

Fino a un anno fa era il cuore della vita sociale, location per eccellenza di matrimoni, gala, feste e bar mitzvah. Ospitava eventi scintillanti, maestosi ed eleganti. Pensati per non essere dimenticati.

A volte grazie a impressionanti statue di ghiaccio, o decorazioni floreali uniche – a volte venivano sospese dal soffitto, così gli ospiti avevano la sensazione di trovarsi sotto un giardino. In un caso la sala era stata adornata da diecimila peonie.

Alcune feste erano a tema parco invernale, con drappeggi che somigliavano a ghiaccioli, tappeti bianchi e una macchina della neve. Idee spettacolari che strappavano ammirazione anche dal personale, che compunto e velocissimo attraversava la sala portando piatti e vassoi. «Che festa».

Il 2019 era stato un anno record per l’Hotel Pierre e, in generale, per New York. Negli ultimi 12 mesi la città aveva registrato 67 milioni di visitatori, con il 90% delle strutture alberghiere piene. Al Pierre c’erano stati circa 500 eventi (un business di circa 40 milioni di dollari l’anno), di cui 80 matrimoni. L’ultimo, quello del 7 marzo 2020, era addirittura un cosiddetto «matrimonio di seconda generazione», perché anche la madre della sposa, 30 anni prima, aveva festeggiato lì.

Sei giorni prima era stato individuato il primo caso di contagio da coronavirus a New York. Le notizie della pandemia avevano messo tutti in allerta (nel corso della serata le superfici venivano disinfettate e ripulite di continuo) e nel giro di due settimane sono arrivate le chiusure: a Broadway, negli uffici, nella città. Anche il Pierre si è adeguato. Gli eventi previsti per aprile e i mesi successivi venivano via via cancellati.

Cominciava il lungo inverno del Covid anche se, in quel momento, quasi tutti erano convinti che sarebbe durato poco. Un mese, massimo due. E si sarebbe tornati alla normalità. Non è andata così.

L’Hotel Pierre, come molti altri importanti alberghi della città, è un piccolo universo multiculturale. Prima della pandemia aveva alle sue dipendenze, come spiega questo ritratto apparso sul New Yorker, 435 persone, tra cui 62 addetti alle camere, tre imbianchini, 11 fattorini, 43 cuochi, 17 addetti alla lavanderia, 46 camerieri a pieno regime e 11 ascensorista. Si parlavano 49 lingue, dal creolo al danese, passando per il greco, il russo, il tagalog, il tamil e il tibetano. Un simbolo di New York e, dicevano scherzando, una riedizione delle Nazioni Unite.

Al Pierre erano attive anche le unioni sindacali, chi entrava poteva contare su una pensione e una assicurazione sanitaria. L’impegno richiesto era consistente, ma le paghe erano buone. I lavoratori, spesso stranieri, potevano cominciare a fare nuovi progetti, immaginarsi già classe media. Molti, con gli anni, compravano casa, mettevano via soldi per l’università dei figli, investivano. Il sogno americano dell’ascensore sociale passava anche per i corridoi e le camere di uno degli hotel più rinomati della città (forse preceduto soltanto dal Carlyle e dal Plaza.

Un meccanismo che funzionava: offriva servizi di massimo livello e ospitava nomi importanti, sia ospiti temporanei disposti a pagare 600 o 12mila dollari per una notte, sia veri e propri residenti. Negli anni ’30 le suite furono convertite in appartamenti di pregio, destinate – dagli anni ’70 – ad alcuni degli uomini più ricchi del pianeta, che ammettono nuovi ingressi (cioè nuovi condomini) solo attraverso una rigida selezione. Oggi al Pierre ha casa Michael Eisner, ex Ceo della Walt Disney, Howard Lutnick, a capo della Cantor Fitzgerald (suo è il penthouse da 44 milioni di dollari).

La pandemia, come per quasi tutti gli altri business nel mondo, ha interrotto tutto. Il numero degli ospiti è crollato, le prenotazioni cancellate. Nel giro di due mesi, quasi tutto il personale è stato mandato a casa. Al minimo storico, erano rimasti solo in 60, che si occupavano dei residenti dell’albergo. Alcuni si sono ammalati e tre sono morti per Covid-19.

Nel frattempo il periodo di chiusure si prolungava, alcuni ex dipendenti hanno ottenuto sussidi per la disoccupazione (quelli più anziani) mentre i più giovani hanno cominciato a trovarsi in seria difficoltà. Nemmeno su Internet si trovavano più lavori. «È la prima volta. A New York non mi era mai capitato di non trovare lavoro», spiega al New Yorker Pasquale Di Martino, cameriere dell’hotel arrivato in America dall’Italia nel 1993.

Alle timide riaperture di settembre è seguita la seconda ondata, con nuovi limiti e restrizioni. A Natale 2020 l’Hotel Pierre aveva solo 18 ospiti. Il vuoto era così grande da fare impressione.

Adesso, con l’arrivo dei vaccini, sembra che la ripresa sia solo una questione di tempo. Ma è importante capire quanto. Il futuro degli alberghi della città è legato a doppio filo con la città stessa, le sue attrazioni, la sua vitalità.

Al momento i teatri di Broadway sono chiusi, i turisti internazionali sono spariti (erano il 20% nel 2019), i viaggi di lavoro sono stati azzerati e, per il futuro, non è ancora chiaro come e se riprenderanno. Lo stesso vale per i meeting, le convention, i congressi. Secondo Vijay Dandapani, presidente della Hotels Association of New York City, quel tipo di business «è morto per almeno due anni. Una ripresa sarà visibile solo dal 2025 in poi». I danni sono a cascata e riguardano soprattutto i lavoratori degli eventi: fotografi, musicisti, fioristi. Cosa faranno in quei mesi?

In una città ancora ferma, qualche cosa si muove. All’Hotel Pierre le previsioni più ottimistiche parlavano di una riassunzione di almeno metà del personale per primavera. Poi ci hanno ripensato: forse a giugno.

Tra i segnali positivi ci sono le 32 feste di matrimonio prenotate per il 2022. A San Valentino c’erano 57 camere occupate. Nello stesso mese c’è stato anche un bar mitzvah con 50 invitati, con una cena e un pranzo il giorno dopo.

Erano tutti familiari, certo. Ma erano anche tutti sorpresi di poterlo fare, spiega Bill Spinner, il direttore del catering. Forse perché anche per riabituarsi alla normalità – o a quello che più le somiglia – ci vuole del tempo.

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