Più di ogni altro genere, il romanzo storico mi metteva a disposizione materiale abbondante, e di prim’ordine.
Di come fossero andate le cose, grosso modo, anche il lettore più sprovveduto conservava una qualche memoria, e anche di chi fosse chi, se dei Borgia ci si potesse fidare oppure di quale malattia fosse morto l’emaciato Chopin. Quella era la falsariga, da cui non si sgarrava.
Per il resto si andava di immaginazione, ma con giudizio. Mai contraddire i manuali di storia, semmai lasciar intendere che non la raccontavano tutta, che c’era dell’altro da riportare allo scoperto e che il romanziere era lì per servirli. Complotti in grande stile no, perché in questo campo nessuno batte gli americani, ma un complottino occasionale era bene apparecchiarlo, sempre con la dovuta moderazione. Uno dei personaggi laterali ne usciva magari con una reputazione migliore di quella fin lì assegnatagli dai sussidiari, ma guai a intaccare l’edificio della verosimiglianza.
Che io la pensassi diversamente è un’altra questione e alla lunga è diventata noiosa perfino per me stesso.
Avessi seguito il mio istinto e le mie convinzioni, avrei proclamato che l’unica maniera per dimostrarsi fedeli al significato di un’esistenza consiste non nel ricalcarne i contorni – come si faceva un tempo da bambini, appoggiando al vetro della finestra l’immagine da riprodurre e seguendone il profilo con la matita su un altro foglio, traballante e sovrapposto al primo – ma nell’individuare il nucleo, il centro, la ferita da cui tutto ha origine, e poi stravolgere le cronologie, differire gli eventi, travisare le situazioni pur di costringere quella vita a confessare la propria pena.
Non una tortura, ma il gesto del giardiniere che pota una siepe o riduce le chiome di un albero. La mia ambizione, purtroppo, eccedeva i miei mezzi. Mi consolavo annotando su un taccuino aforismi velenosi, come questo, di cui ero stupidamente orgoglioso: “Per fare la bella vita bisogna scrivere brutti libri”.
Bruttine com’erano, le mie epopee vendevano abbastanza bene. Non tanto da arricchirmi, ma abbastanza da permettermi qualche piccolo lusso, come questo viaggio in cui ora mi trovavo intrappolato.
Con Bruegel ero stato davvero imprudente. Ho appena spiegato che di un buon protagonista è necessario che qualcosa già si sappia: quand’è nato e quando è morto, e dove ha studiato, e chi ha frequentato, e gli amori, certo, con qualche bella lettera da riprodurre smussando la difficoltà della prosa d’epoca. Che romanzo sarebbe, in fondo, se non ci concedessimo un po’ di libertà?
Il ragionamento poteva valere per i figli del capostipite, Pieter il Giovane e Jan, celebre il primo per i suoi fuochi infernali (e per le innumerevoli copie delle opere del padre, talmente meticolose da far pensare che fossero duplicate su gigantesche finestre gotiche), rinomato per la sontuosità dell’esecuzione il secondo.
Valeva, a maggior ragione, per le generazioni successive, che però, rispetto al patriarca, avevano occupato posizioni di rango inferiore nella gerarchia delle arti. Ma il Vecchio? Che cosa si sa del Vecchio?
Pochissimo, questo è l’inciampo. Niente sposa ebrea come per Rembrandt, nessuna ragazza con il turbante e l’orecchino come per Vermeer. Non dico la data, ma nemmeno il luogo della sua nascita può essere indicato con sicurezza.
Appare ad Anversa, nel 1551, tra i maestri censiti nella corporazione di San Luca, patrono dei pittori, e qualche anno dopo sposa a Bruxelles una Mayken Coecke, la figlia di un artista alla moda, Pieter Coecke van Aelst, alla cui bottega si pretende Bruegel si sia formato senza che tra lo stile dei due vi sia alcuna somiglianza.
Più influente doveva essere stata la vicinanza con la suocera, Mayken Verhulst, miniaturista rinomata che più tardi si sarebbe fatta carico della formazione artistica dei nipoti. Pieter il Giovane e Jan, esatto: Bruegel e i suoi figli.
Anche i dipinti del Vecchio tradiscono un’abitudine alla precisione che solo in superficie contrasta con la sommarietà di certi dettagli. A volte gli basta un grumo di pittura per far intravedere da lontano la faccia di un personaggio, in altre occasioni rifinisce il ritratto con accuratezza degna di un cammeo. Decide lui il modo e il tempo. Come ogni artista, il Vecchio è dispotico, imperscrutabile. In lui il metodo coincide con l’istinto.
Ma a raccontare un metodo, o l’istinto, non si fa un romanzo. Non il romanzo che ci si aspettava da me, almeno.
D’accordo, c’è il viaggio in Italia, ci sono i disegni, ci sono le incisioni realizzate con reciproco vantaggio per l’editore Hieronymus Cock, c’è quella cinquantina scarsa di dipinti dai quali discende la sua fama di pittore. Rari i documenti, e per lo più indiretti. Resta troppo da inventare, in un frangente del genere. E più cresce l’invenzione, più diminuisce la sorpresa del già noto, che considero la mia principale risorsa.
da “La quercia di Bruegel”, di Alessandro Zaccuri, Aboca, 2021, pagine 168, euro 15