L’applausometroL’arte dimenticata della claque nei teatri

Nella Francia di inizio XIX secolo era naturale pagare persone per applaudire a comando nei momenti topici. Mescolati tra il pubblico potevano anche commuoversi a comando, chiamare il bis o lanciare mazzi di fiori. Con il giusto segnale del direttore d’orchestra salvavano le performance più sbiadite, agendo come influencer sulla sala

Fotografia di Vlah Dumitru, da Unsplash

Per chi veniva da fuori era un shock. Ma nella Parigi della prima metà del XIX secolo la claque era un’istituzione affermata e riconosciuta. Andando al teatro dell’Opera o al Varieté era del tutto naturale trovarsi vicino a persone pagate per applaudire a comando nei momenti topici. Erano assoldate dal teatro stesso – proprio come i musicisti dell’orchestra – per rafforzare le scene più deboli e spronare il pubblico titubante ad applaudire, cioè a claquer. Da qui il nome.

Alcuni erano specializzati negli applausi, altri si commuovevano a comando, altri ancora chiamavano i bis o lanciavano mazzi di fiori (per averlo era necessario che l’autore pagasse un sovrapprezzo). Nel giro di poco si diffusero in tutta la Francia e, in misura minore, anche all’estero.

Anche noti come “Cavalieri del Lampadario” o come “Romani” (si diceva che il primo a esigere applausi a comando fosse stato Nerone) avevano assunto, nei primi 30 anni del 1800, un certo potere.

Tanto che, scrive Albert W. Halsall in “Victor Hugo and the Romantic Drama”, «attori, impresari e scrittori che volevano evitare un flop alla prima pensavano che fosse indispensabile ricorrere a loro». Alcuni potevano anche rifiutarsi e andare incontro a un pubblico non ammaestrato (tra questi lo stesso Victor Hugo per la sua “Hernani”), ma il rischio di una risposta gelida della sala era molto alto.

I teatri avevano a libro paga il capo della claque. Gli fornivano il compenso e i biglietti per i suoi uomini, che lui portava in sala e piazzava, in modo strategico, nei vari angoli della platea. Poi, al momento giusto, mandava – come un direttore d’orchestra – i segnali.

Non era un lavoro banale. Uno degli storici leader della claque dell’Opera, August Levasseur, (uomo «enorme, forte, un vero e proprio Ercole, con un paio di mani immense. Nato per quel mestiere») lavorava a tempo pieno. Studiava il testo prima di ogni performance, si accordava con gli autori per decidere i momenti in cui fare intervenire gli applausi e quelli in cui, invece, non sarebbe servito.

Santon, del Variété, conosceva a memoria tutto il repertorio tanto che durante le esecuzioni leggeva il giornale (all’epoca le luci venivano tenute accese). Sapeva benissimo quando intervenire.

Le loro incursioni erano studiate, calibrate. A volte, addirittura, diventavano parte integrante dello spettacolo: «Ecco un esempio di una astuzia messa in atto dalla claque», scriveva il musicista Claude Trevor, «che riguarda un celebre tenore al teatro Carlo Felice di Genova. Era famoso per la sua capacità di tenere la nota molto a lungo, ma il suo successo in quell’occasione – era la Cavalleria Rusticana – andò oltre ogni aspettativa. È il momento del “Brindisi” e il cantante si cimenta nella lunghissima nota finale, acuta. In quel momento, dopo averla tenuta già molti secondi, parte della claque comincia ad applaudire in modo rumoroso (era tutto preparato) e parte della claque, per distogliere l’attenzione, risponde zittendo gli applausi. Il cantante approfitta del rumore per riprendere il respiro e continuare a cantare. Per l’ascoltatore normale, la sensazione era che non avesse mai smesso di tenere la stessa nota. Solo gli iniziati potevano scorgere il trucco. Il risultato fu un successo strepitoso, con scene di delirio che non avevo mai visto prima».

Ma perché si sentiva il bisogno di una claque che guidasse il pubblico in sala? La risposta sta nei rapidi cambiamenti sociali avvenuti con la Rivoluzione francese.

Con l’Ancien Régime l’opera era un affare per nobili. A loro (soprattutto al re) erano riservati i posti migliori, cioè sul palco stesso. Costituivano, seduti di fronte agli attori, il vero spettacolo: a teatro si andava più che altro per vedere e farsi vedere, per chiacchierare, spettegolare e amoreggiare.

Le luci erano sempre accese (solo con Richard Wagner saranno abbassate), i rumori ammessi. Alcuni si lanciavano a cantare insieme al cantante. Capitava poi che lo spettacolo venisse interrotto dagli applausi che salutavano l’arrivo degli spettatori ritardatari, spesso quelli più importanti.

Nel giro di 20 anni tutto cambia. Il declino della nobiltà lascia il posto – alla lettera – a un pubblico borghese, con abitudini diverse e desideroso di mostrare il suo interesse per la cultura.

Ma, come si scrive qui, non avevano la stessa confidenza degli aristocratici. In poche parole, avevano bisogno di influencer. La claque nasce per questo: orientare gli applausi e, in ultima analisi, i gusti di un pubblico novello che andava educato.

Non è un caso che, nella stessa epoca, nasca anche la figura del critico teatrale: «Serve per creare un consenso diffuso di gusti e giudizi, ma è necessario solo quando le fondamenta di questi giudizi non sono più sicuri», scrive lo storico Nicolas Till.

Lo sconvolgimento dei valori avvenuto negli anni precedenti aveva portato a un cambiamento anche sul lato estetico. La nuova classe sociale doveva ancora capire cosa andava visto e cosa no, oltre che imparare cosa se ne dovesse pensare.

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