DispacciLa diplomazia è la chiave per capire il presente

In “Nota diplomatica. Pratiche innaturali” (Biblion), sono raccolti gli articoli pubblicati ogni settimana da James Hansen sulla sua newsletter. Osservazioni sul mondo, sulla storia, la geografia. Riflessioni immediate che fanno ordine nella confusione che ci circonda. Nella speranza di indovinare il futuro

Fotografia di Jay Wennington, da Unsplash

Latitudini popolari, 18 dicembre 2020

La percezione comune nel Paese è che l’Italia sia fondamentalmente divisa tra Nord e Sud. È una visione rafforzata da una certa tendenza di “raddrizzare” un pochino la Penisola sulle mappe che appaiono nei libri scolastici di modo che la si possa raffigurare in una sola pagina. La cosa però lascia intellettualmente disarmati riguardo alle divisioni Est/Ovest.

Per quanto sappia di pedanteria, può essere un esperimento interessante quando si è a cena chiedere ai compagni di mettere nell’ordine corretto, da Ovest a Est, le seguenti città: Roma, Napoli, Venezia e Trieste.

Venezia, a 12,2 gradi Est di longitudine, è per un pelo la più occidentale delle quattro. Roma si trova a 12,3° E. La città di gran lunga più “orientale” delle quattro è invece Napoli, a 14,2° E. Sì, Napoli è più a Est di Trieste (a 13,5° E), e di un bel po’. È all’incirca sulla stessa longitudine della città slovena di Ljubljana.

Delle principali città italiane, Bari è ovviamente la più ad oriente di tutte, situata approssimativamente tra le longitudini di Zagabria e di Bratislava. Ciò implica tra l’altro che Sarajevo si trova quasi esattamente a Nord di Brindisi…

Anche all’interno dell’Italia settentrionale (o forse a questo punto dovremmo dire “occidentale”) la percezione distorta persiste. Viene spontaneo supporre che Torino sia a Nord di Bologna—e lo è, ma per ben meno di un grado di latitudine, poche decine di chilometri—ma Torino risulta soprattutto a Ovest di Bologna, di quasi quattro gradi di longitudine. Essendo stati noiosi in tema di longitudini, è giusto proseguire anche con le latitudini, specialmente ora che ne abbiamo citata una.

Latitudini popolari: • Roma 41,5° N — Chicago (41,5° N), Mukden (41,5° N) • Napoli 40,5° N — New York (40,4° N), Beijing (39,6° N) • Milano 45,3° N — Montreal (45,3° N), Belgrado (44,5° N) • Palermo 38,1° N — Washington DC (38,5° N), Samarcanda (39,4° N)

Finalmente, come risulta chiaramente da ogni mappamondo incentrato sull’Italia, Roma si trova quasi precisamente a Nord di Abong Mbang, in Camerun, mentre Milano è direttamente a Sud di Snota, in Norvegia. Si tratta di una chiara indicazione che tutti sono i meridionali di qualcuno…

Quanto al suggerimento iniziale di parlarne con i commensali a cena, forse non è il caso… Comunque sia, è piacevole sapere che abbiamo potuto—finalmente—sciogliere uno dei nodi eterni della politica domestica italiana: la “Questione meridionale”. Semplicemente, non esiste. L’Italia ha piuttosto una “Questione orientale”.

Back to work, 11 dicembre 2020

L’umanità conosce i grandi cicli epidemici. Vengono, restano due anni, passano, un po’ tornano e—lentamente—da epidemici diventano endemici. Con i nostri vaccini stiamo sfidando la natura e forse questa volta funzionerà.

Permarranno comunque i danni sociali ed economici. I cicli economici moderni imitano la natura. Arrivano, creano ricchezza o povertà, se ne vanno lasciando macerie. Nel caso attuale pare inevitabile che uno degli esiti sarà la disoccupazione massiccia. Molte persone non avranno più un lavoro e dunque, per come la società è organizzata, di che vivere.

Il “posto” è, storicamente, un’invenzione abbastanza recente. Nell’antica società contadina e artigiana—per millenni quella della stragrande maggioranza della gente—gli individui non vendevano il proprio tempo, vivevano invece direttamente di ciò che producevano. Non era una vita paradisiaca, e se anche lo fosse stata, non abbiamo modo di tornare indietro.

Negli Stati Uniti—forse l’economia internazionale più avanzata—il Governo distrugge annualmente, perlopiù bruciandola, una parte della produzione agricola per mantenere i prezzi a un livello soddisfacente. Le banche, rientrate in possesso delle case pignorate, non di rado le fanno abbattere di modo che l’eccessiva disponibilità non deprima il mercato. Di beni materiali la società ne ha a sufficienza, è il meccanismo per distribuirli che è disfunzionale. La scoperta non è nuova, è alla base delle sperimentazioni infelici dei vari tipi di “socialismo reale”.

Se la distribuzione è legata al “posto”—com’è—allora è lì che bisogna intervenire. Nel 1930 l’economista inglese John Maynard Keynes stimò che entro il 2030 lo sviluppo tecnologico sarebbe arrivato al punto che molti avrebbero potuto lavorare solo 15 ore alla settimana. Non è andata così.

L’ecatombe occupazionale che potenzialmente si affaccia ora potrebbe—forse—finalmente imporre la necessità di dare un senso compiuto al vecchio slogan “lavorare meno, lavorare tutti”, anche perché questa volta l’impeto pare arrivare dai vertici anziché dalla base. Diverse grandissime aziende—Unilever e Microsoft tra le ultime—hanno improvvisamente preso a sperimentare la settimana “corta”, trovando risparmi nella maggiore produttività dei dipendenti—meno logorati—e nei minori costi energetici.

Da tempo gli ecologisti promuovono l’idea della settimana corta per via dei presunti benefici per l’ambiente derivanti in parte dalla riduzione del pendolarismo. Anche alcuni governi nazionali cominciano a interessarsene seriamente, citando esplicitamente la necessità di dovere riequilibrare il mercato del lavoro davanti agli sconquassi economici provocati dall’epidemia Covid.

Già a maggio l’attivo e popolare Primo Ministro neozelandese Jacinda Ardern ha dichiarato che le aziende nazionali avrebbero dovuto implementare la settimana corta allo scopo di migliorare la produttività e la qualità di vita dei dipendenti, favorendo anche—con più tempo libero—la crescita del turismo domestico per sopperire al collasso di quello internazionale. Ha fatto notare en passant che avrebbe potuto, a necessità, ottenere lo stesso risultato dichiarando molte nuove feste legali…

Keynes pensava che sarebbero bastati cent’anni per digerire la rivoluzione tecnologica e arrivare al futuro. Forse non era un secolo che ci voleva, ma un’epidemia.

da “Nota diplomatica, pratiche innaturali”, di James Hansen, Biblion edizioni, 2021, pagine 326, euro 24

I testi sono pubblicati dalla newsletter settimanale “Nota diplomatica”

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