Se da più parti è stato notato come l’architettura abbia affrontato un processo di articistizzazione, che non è semplicemente una forma ibrida e neppure il crossover linguistico che si pratica ormai da anni, bensì l’aver assimilato un modo più spettacolare di esporre e di presentarsi al pubblico, è altrettanto vero che per ottenere maggiori informazioni sullo stato delle cose l’approccio e il metodo della stessa architettura funziona molto meglio di quello dell’arte.
Stiamo parlando, naturalmente, del Padiglione Italia alla Biennale di Venezia, inaugurata da poche settimane l’architettura, slittata di un anno e inserita all’interno di una mostra internazionale molto complessa, che abdica (era ora) al primato delle archistar puntando piuttosto sulla forza innovativa e originale del progetto.
In fondo alle Corderie, dove il nostro Padiglione nazionale è stato decentrato non senza polemiche dal 2007, vanno in scena le Comunità resilienti di Alessandro Melis, architetto, docente all’università di Portsmouth e direttore del Cluster for Sustainable Cities. Una mostra molto complessa, difficile, che necessita di un tempo lungo per provare a capirci qualcosa, allestita e impaginata con lo spirito della grafica alternativa e cyberpunk degli anni ’90 ideata da DoKC Lab/Ercolani Bros.
È che noi non siamo più abituati a dedicare così tanta attenzione alle cose, assuefatti alla mania del tutto e subito, del prodotto preconfezionato, dunque è innegabile la fatica di inseguire i tanti spunti e soprattutto il rischio di perdersi a leggere testi davvero lunghi e talvolta scritti con corpo troppo piccolo per un pubblico irrimediabilmente ipovedente. Volendo c’è un monumentale catalogo in due volumi dove sono ancora i saggi a prevalere, per cui chi ama i “coffee book” con grandi foto di architettura ci resterà male.
Critiche queste che risentono del tipico approccio artistico che privilegia allestimenti sempre uguali, ideologia da white cube, molto ordinati per un’estetica fieristica che deve valorizzare l’opera per venderla. Qui no, qui siamo nel caos, eppure se vuoi saperne di più sul nostro presente, se vuoi provare a capire quali sono i temi caldi nell’urgenza contemporanea, il Padiglione Italia di architettura già da tempo funziona, quello di arte proprio no, a cominciare dalle logiche che governano le scelte del commissario in una rosa di nomi e relativi progetti dove l’ultima parola è sempre quella del ministro Franceschini (o di persone a lui vicine).
Nel 2019, scorsa Biennale d’arte, al Padiglione Italia fu incaricato Milovan Farronato, direttore del Fiorucci Art Trust, vicino al mondo della moda, più conosciuto all’estero che in patria. Portò con sé tre artisti (Liliana Moro, Enrico David che vive a Londra, la scomparsa Chiara Fumai) ma di quell’esposizione non resta memoria se non un percorso bianco e ordinato, estetizzante oltre modo, senza nessun accenno a temi della contemporaneità.
Nel 2022, quando la Biennale tutta sarà diretta da Cecilia Alemani, prima donna italiana a ricoprire il prestigioso incarico, al Padiglione Italia ci sarà Eugenio Viola, curatore in un museo d’arte a Bogotà, Colombia, molto probabilmente con la personale di Gian Maria Tosatti, concettuale 41enne che per quanto bravo non immaginiamo come possa da solo dominare uno spazio così grande, lo stesso ora occupato dalla mostra di Alessandro Melis, profluvio caotico ma vitalissimo di idee dove perdersi è facile, altrettanto uscirne arricchiti.
Farronato e Viola hanno in comune di lavorare oltre confine e l’esterofilia piace molto a Franceschini e staff, lo ritengono un valore aggiunto quando invece sarebbe stato più che mai importante premiare un curatore o un direttore di museo tra quelli che hanno scelto pervicacemente di restare in Italia, con tutti i limiti del caso. La fuga di cervelli, peraltro, è passata di moda e oggi che il nostro sembra proprio un Paese normale, a cominciare dal governo, andava dato un segnale diverso e invece le logiche dell’arte sono sempre le stesse: la mostra è assimilata alla fiera, il mercato stabilisce il consenso.
Per fortuna c’è architettura a restituire la vivacità culturale cui aspira l’Italia nel 2021 insieme alla capacità di individuare i temi salienti, prima di tutto l’ambiente, di utilizzare il termine comunità così cruciale per la nostra morfologia che ci rende in qualche modo unici o almeno diversi da tutti gli altri, dove la provincia è al centro della riflessione e non alla periferia, mentre la tecnologia costituisce uno strumento imprescindibile a patto che se ne includa l’umanizzazione. Ad architettura, peraltro, espone per la terza volta al Padiglione Italia lo strepitoso fotografo di visioni apocalittiche Giacomo Costa. Se non è un record poco ci manca, almeno nei tempi nostri.