Il dibattito sulla sospensione della proprietà intellettuale dei vaccini contro il Covid-19, tornato d’attualità dopo la presa di posizione del presidente americano Joe Biden, merita spazi di riflessione non ideologica e alla portata di tutti. La particolare complessità della materia sotto il profilo non solamente tecnico giuridico, ma anche dal punto di vista politico-economico e, ovviamente, etico, richiede una analisi semplificata che non si riduca, tuttavia, a una banalizzazione della questione.
Cominciamo col dire che i vaccini sono farmaci biologici che hanno lo scopo di prevenire le malattie infettive attraverso la stimolazione del sistema immunitario e la successiva acquisizione della cosiddetta “immunità attiva”. Il processo che porta all’invenzione e alla utilizzazione/commercializzazione di un nuovo ed efficace vaccino è lungo, complesso e costoso sia dal punto di vista scientifico sia dal punto di vista sanitario e amministrativo. Solitamente questa attività di ricerca, produzione industriale e commercializzazione, viene svolta da grosse industrie farmaceutiche che, oltre ad affrontare ingenti costi fissi per la ricerca di base, costante nel tempo a prescindere dalle emergenze come quella che oggi stiamo vivendo, spesso si avvalgono di ingenti finanziamenti pubblici, e di altre agevolazioni, per la ricerca e lo sviluppo di nuovi farmaci. Questo è certamente il caso dei vaccini contro il Covid-19.
Al fine di stimolare la ricerca e il progresso in ambito farmaceutico, così come avviene in tutti i settori tecnologici, gli Stati riconoscono un diritto di proprietà intellettuale all’inventore. Questo diritto, che prende il nome di brevetto, consente al suo titolare di escludere chiunque altro dalla possibilità di sfruttare economicamente la propria invenzione per, più o meno, 20 anni. In questo modo l’inventore, che di solito non corrisponde al profilo di Archimede Pitagorico, ma nel caso dei vaccini è spesso una multinazionale del farmaco, potrà recuperare i costi affrontati per la ricerca e la produzione del vaccino e ottenere un profitto che la stimolerà a proseguire nella ricerca e nel cammino verso il progresso scientifico e tecnologico di cui, in definitiva, trarrà vantaggio l’umanità intera. È un compromesso tra Stato e cittadini, dunque, che è alla base della prosperità delle economie di mercato e che si rinnova, grosso modo, dai tempi delle rivoluzioni liberali, ovvero dai tempi della dichiarazione di indipendenza degli Stati Uniti d’America e della Rivoluzione Francese.
Questo complesso sistema si basa sul principio di territorialità. Ovvero: la protezione riconosciuta dal brevetto non può varcare i confini nazionali. Ciò nondimeno, sin dalla fine del 1800, gli Stati si sono accordati a livello internazionale per condividere i principi che stanno alla base della disciplina dei brevetti e della proprietà intellettuale, con lo scopo di incentivare l’innovazione e il progresso tecnologico, ma anche la creatività in senso estetico, protetta dal diritto d’autore. Ciò ha posto altresì le basi per rendere più semplice la circolazione delle tecnologie e delle opere dell’ingegno nel mondo intero, avviando un processo di armonizzazione internazionale della normativa sulla proprietà intellettuale.
Questo processo, negli ultimi 30 anni circa, si è spostato dal suo foro di elezione naturale, ovvero quello della Organizzazione mondiale per la proprietà Intellettuale, a quello della Organizzazione mondiale per il commercio (Wto), alla quale oggi aderiscono 157 Stati che rappresentano più del 97 per cento del commercio mondiale. In questo nuovo contesto, i diritti di proprietà intellettuale, e tra questi i brevetti, sono considerati, e sono stati disciplinati, come un aspetto particolare del commercio internazionale. In tale ambito gli Stati che aderiscono al Wto hanno stipulato, nel 1994 a Marrakech, un accordo internazionale sugli aspetti collegati al commercio dei diritti di proprietà intellettuale, noto con l’acronimo TRIPs, che ha dato il via al fenomeno della globalizzazione.
L’accordo TRIPs, la cui adesione è obbligatoria per tutti i Paesi che intendono entrare a far parte del sistema di commercio internazionale, introduce una serie di standard minimi di protezione, anche in materia di brevetti, che tutti gli Stati sono tenuti ad applicare se vogliono partecipare attivamente all’import/export globale di merci e di servizi. A ben vedere si trattava di una sorta di assicurazione che l’Occidente industrializzato e progredito stipulava con i Paesi meno sviluppati per poter delocalizzare le produzioni e conquistare nuovi mercati con i loro beni protetti da marchi, brevetti e diritti d’autore, senza correre il rischio di subire il furto o la contraffazione dei brand, delle tecnologie, e delle opere dell’ingegno, come film e format televisivi, che dalla metà degli anni Novanta hanno invaso il mondo intero. Il discorso è molto interessante, e non è detto che sia andata proprio come si pensava che andasse all’epoca, ma non è questo il tema da affrontare oggi.
Torniamo dunque ai brevetti. Già in occasione dei TRIPs, ci si rese conto che un eccesso di tutela delle invenzioni avrebbe potuto, paradossalmente, nuocere alla vivacità del processo innovativo che, al contrario, avrebbe potuto beneficiare dalla diffusione e dalla imitazione delle innovazioni. Inoltre si ritenne che, in caso di conflitto, la proprietà intellettuale dovesse cedere il passo a superiori ragioni di tutela della salute, dell’alimentazione pubblica e dell’ambiente. Pertanto fu prevista, a determinate condizioni, la possibilità di introdurre delle limitate eccezioni ai diritti esclusivi conferiti da un brevetto. In questo alveo si inserì la dichiarazione di Doha su TRIPs e salute pubblica del 2001, che rese concreta la possibilità di derogare ai brevetti sui farmaci necessari a contrastare le epidemie da HIV/AIDS, da malaria e da tubercolosi, endemiche nei Paesi più poveri.
In pratica, si consentiva la produzione e l’esportazione di farmaci protetti da brevetti attraverso la concessione di licenze obbligatarie in favore di Paesi con problemi di salute pubblica e privi di adeguate risorse finanziarie e industriali per risolverli. Una possibilità oggi tendenzialmente prevista dalle leggi nazionali sui brevetti e che in Europa è stata espressamente disciplinata dal Regolamento n. 816/2006.
È proprio alla luce di questo consolidato quadro normativo che va presa in esame la proposta di Biden. Il presidente americano, probabilmente, non ha, e non potrebbe avere, alcuna intenzione di sospendere i brevetti sui vaccini anti Covid-19 nei Paesi ricchi, tra cui gli Stati Uniti e i Paesi dell’Unione europea. Non ce ne sarebbe alcun motivo oggi. Semmai, raggiunta la certezza di potere completare in tempi piuttosto brevi la campagna vaccinale negli Stati Uniti, Biden ha la preoccupazione, non solo per ragioni etiche ma, verosimilmente, anche per ragioni di natura geopolitica ed economica, di rendere effettiva e possibile l’immunizzazione e quindi la normalizzazione del mondo intero, fatto per lo più di Paesi non in grado di fare fronte da soli alla pur necessaria vaccinazione di massa della loro popolazione. Una necessità, quest’ultima, di fatto irrealizzabile senza ricorrere alle licenze obbligatorie sui brevetti, e al conseguente abbattimento dei costi e delle limitazioni alla produzione dei vaccini per i Paesi meno sviluppati.
Se è corretta questa ricostruzione, non appaiono né ragionevoli né convincenti le resistenze di Big Pharma che, comunque, otterrebbe un equo indennizzo per i suoi brevetti, certamente superiore ai ricavi che sarebbe in grado di accaparrarsi dalla vendita dei propri vaccini ai Paesi del Sud del mondo, sostanzialmente privi delle risorse economiche e industriali per provvedervi autonomamente. Né tanto meno, per le ragioni sopra esposte, è plausibile che ci possa essere qualcuno in grado di difendere, a lungo e in maniera persuasiva, le ragioni della proprietà intellettuale quale stimolo all’innovazione, contro quelle della salute pubblica in un mondo che verrebbe di fatto diviso in due, tra ricchi e poveri, e bloccato per non si sa quanto tempo. Un blocco a lungo termine agli spostamenti degli esseri umani, per ragioni sanitarie, ad appannaggio esclusivo delle politiche sovraniste che Biden sta contribuendo ad arginare.
In tutto questo, non è del tutto chiaro quali siano le reali preoccupazioni che aleggiano in alcune cancellerie europee, e in particolare non si comprendono le ragioni che stanno dietro il cordone sanitario che la cancelliera Angela Merkel ha stretto intorno ai brevetti e a tutela di Big Pharma. I leader europei dovrebbero infatti riflettere in maniera non ideologica sulle conseguenze del protrarsi di questa situazione nel resto del mondo e sui vantaggi di un intervento umanitario, comunque ineluttabile, anche perché se non sarà l’Occidente a lanciare la crociata internazionale contro il virus, probabilmente si daranno da fare la Cina e, per quel che può, la Russia.
Certamente, e questo ormai è lo snodo cruciale della questione, non è sufficiente sospendere i brevetti, nelle modalità descritte, per raggiungere l’obiettivo desiderato. Occorre anche negoziare con i titolari dei diritti i contratti di trasferimento del know-how, coperto dal segreto industriale, necessario a produrre i vaccini e, infine, bisogna programmare gli investimenti necessari a incrementarne la produzione industriale. È proprio in questo impervio e scivoloso terreno che deve muoversi Biden se vuole dare seguito al suo annuncio e convincere i partner europei che le licenze obbligatorie sui vaccini contro il Covid non sono né un esproprio proletario né la fine della proprietà intellettuale, ma un modo per riconquistare leadership politica mondiale e al contempo per tenere a bada la lobby del farmaco, da cui oggi dipende il mondo intero.
Una discussione che, al di là dei buoni sentimenti, è di carattere prevalentemente commerciale, oltre che geopolitico, e che è già stata avviata in seno al WTO. A meno che, ma tutti comunque ne subirebbero le conseguenze, non si tratti di una semplice mossa di politica interna con l’obiettivo di mettere in discussione lo strapotere dell’industria farmaceutica nazionale e ottenere una riduzione dei prezzi dei farmaci. Come riferito dal Financial Times, infatti, grazie alla coraggiosa presa di posizione di Biden, la potente industria farmaceutica americana ha perduto la sua fama di intoccabilità. Una situazione analoga, secondo l’esperto lobbista di stanza a Washington, Brandon Barford, a quanto accaduto nel 2008 all’industria dei servizi finanziari, all’epoca ritenuta intoccabile, ma poi travolta dalle conseguenze della crisi del 2008.
La trattativa dunque, comunque la si pensi, è ufficialmente aperta. E certamente, ma questo dovrebbero saperlo anche i più strenui paladini del diritto della proprietà intellettuale, non si tratta di un’idea campata in aria e tale da mettere in pericolo «dell’umana gente le magnifiche sorti e progressive».