Il sindacalista miteLa vera storia di Guglielmo Epifani alla guida della Cgil

L’ex segretario del Partito Democratico non è stato il primo socialista a ricoprire il vertice della Confederazione Generale Italiana del Lavoro. Membro della generazione intermedia, il suo compito è stato quello di salvare il salvabile. Senza entrare nella sua gestione dei rapporti unitari, rimane soltanto la macchia del silenzio su Del Turco

Lapresse

La scomparsa di Guglielmo Epifani si aggiunge a quella di diversi dirigenti della Cgil di quelle generazioni che entrarono nel sindacato allo scopo di ricostruire una presenza socialista nella Confederazione di via del Corso, dopo che la grande maggioranza dei sindacalisti socialisti nel 1964 aveva abbandonato il partito, dopo la costituzione del primo governo organico di centro-sinistra, per aderire all’avventura del Psiup (Partito Socialista Italiano di Unità Proletaria). Chi scrive è ormai uno dei pochi sopravvissuti di quella esperienza di formazione del gruppo dirigente. 

Il Psi di allora era molto interessato alla Cgil (tanto che esisteva una norma dello statuto che ne rendeva obbligatoria l’iscrizione). Un interesse che non venne mai meno anche durante e dopo l’unificazione socialista, quando anche nella Uil venne costituita una componente socialista.

Così, per ragioni anagrafiche, una ventina di anni dopo quei quadri che entrarono nell’organizzazione in quella particolare fase, si trovarono a svolgere il ruolo di generazione intermedia tra quella dei comunisti la cui militanza risaliva al secondo dopoguerra e dei più giovani venuti dalle esperienze del biennio caldo della fine degli anni ’60.

Al vertice della componente – dopo un tratto di percorso comune compiuto con i dirigenti che erano rimasti nel Psi (Piero Boni, Mario Didò, Silvano Verzelli, Bruno Di Pol e pochi altri) – si affermarono due importanti personalità – Agostino (Dino) Marianetti e Ottaviano Del Turco – che ricoprirono la carica di segretario generale aggiunto di grandi leader comunisti (prima Luciano Lama, poi Bruno Trentin).

Vista la costituzione materiale della Cgil anche la corrente socialista risentì della demolizione per via giudiziaria del Partito (l’anno chiave fu il 1993, a cui sono dedicati oggi molti saggi e ricostruzioni) e si trasformò ancor più in una minoranza tutelata, nel contesto di un clima complessivamente non favorevole. Quasi tutte le principali responsabilità affidate ai socialisti passarono di mano in un breve arco di tempo.

Guglielmo Epifani era stato indicato da Ottaviano Del Turco come suo successore. Il sottoscritto e Fausto Vigevani – ambedue in segreteria confederale dopo un prestigioso cursus honorum – c’eravamo reciprocamente esclusi. Ma queste sono questioni sepolte da decenni. Il compito di Epifani fu quello di salvare il salvabile.

Lo sbocco non poteva che essere nel confluire nella “Cosa” di Massimo D’Alema, i Democratici di Sinistra, dando vita a un soggetto politico insieme ai socialisti della Uil. Ecco perché – lo dico senza spirito polemico e confermando tutto il rispetto e la stima per Epifani che avevo soprannominato il Giovane Werther – non corrisponde a verità che sia stato il primo socialista a ricoprire il ruolo di segretario generale della Confederazione, essendo da tempo confluito nei Ds.

È interessante, comunque, che oggi diano lustro quelle origini socialiste che per tanto tempo furono a lungo espunte dai curricula.

Poi Guglielmo Epifani divenne il vice di Sergio Cofferati. Chi scrive ha lavorato col “Cinese” sia ai Chimici (Sergio era il mio vice) che in segreteria confederale: nella categoria era un sindacalista puro uno dei migliori che mi è capitato di vedere all’opera. Approdato al vertice della Cgil – succedendo a Bruno Trentin – fu il segretario più politico che abbia mai occupato quella posizione.

Al punto che – in polemica con Massimo D’Alema – organizzò una mozione di minoranza contro la candidatura di Piero Fassino (sostenuta, appunto, dal lìder maximo) al Congresso di Pesaro (il secondo dei Ds tenuto nel 2000). Il candidato di questa mozione era Giovanni Berlinguer; ma l’operazione si rivelò un clamoroso fallimento. Il correntone non andò oltre un terzo dei voti. All’interno di questo composito schieramento, la sinistra tradizionale del partito portò il suo solito 20-22%; un contributo significativo (6-7%) venne da Antonio Bassolino (che stravinse in Campania). Tutti gli altri racimolarono il resto.

Nella quota residua erano inclusi anche Sergio Cofferati e la maggioranza del gruppo dirigente della Cgil (compresi Epifani e gli ex socialisti). Così, il leader sindacale divenne il vero sconfitto di quella competizione politica (benché fosse diventato il beniamino dei girotondini). Epifani gli andò dietro creando una situazione singolare: gli ex socialisti della Uil sostennero Fassino ovvero portarono loro le bandiere del riformismo possibile.

Anche taluni dirigenti della Cgil più insofferenti al potere di Cofferati sull’organizzazione finirono per militare con Fassino, esprimendo così la loro opposizione all’interno del sindacato. A me – ormai esterno ed estraneo in tanti sensi – quella scelta non piacque; ma in fondo se ne potevano comprendere le ragioni. Trovai, invece, sbagliato – alla faccia degli elogi per il riformismo che si sono sprecati nelle rievocazioni del leader di allora – che la Cgil, segretario generale Epifani – si fosse schierata nel 2003 a favore del referendum (contestato persino dai Ds) sull’abolizione della soglia dei 15 dipendenti per l’applicazione dell’articolo 18 dello Statuto; in modo che – se i sì avessero prevalso – anche il salumiere sotto casa avrebbe potuto essere chiamato in giudizio a rispondere del licenziamento del commesso, rischiando la reintegrazione per via giudiziaria.

Sospendo il giudizio sulla gestione della politica sindacale e dei rapporti unitari dell’era Epifani. Non posso però tacere su di un fatto personale che ho trovato sgradevole e ingeneroso. Quando Ottaviano Del Turco fu arrestato il 14 luglio del 2008, Guglielmo era segretario generale della Cgil. Conosceva bene Ottaviano e sapeva che quelle accuse non potevano avere alcun fondamento. Ma in tutta quella sconcertante vicenda, durata più di un decennio attraverso una sequela di processi, la Cgil, allora e dopo, non ha mai detto una parola in difesa di una persona che l’aveva diretta autorevolmente e per tanto tempo. 

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