Homo publicitariusCosì il marketing ha salvato la Marmite e l’ha trasformata in un campo di battaglia

La crema spalmabile inglese ricavata dai lieviti della birra negli anni ’90 era sull’orlo del fallimento. Ma una campagna ben studiata l’ha resa di nuovo popolare facendola diventare un argomento dove sono ammesse solo posizioni estreme: amore od odio

Foto aziendale

Anni prima del referendum sulla Brexit e la sua sofferta divisione tra Leave e Remain, la società britannica era già spaccata a metà: a favore o contro la Marmite, la crema spalmabile scura dal sapore ineffabile ricavata dai lieviti della birra. Può sembrare una questione di importanza minore, ma l’intensità è la stessa: o la si ama o la si odia, ripetono. Ed è una verità condivisa e indiscutibile.

Il fatto è che, come spesso accade, non è sempre stato così. E come ricorda questo articolo dell’Economist, la polarizzazione sulla Marmite non è un fenomeno spontaneo della società, ma il risultato di una campagna pubblicitaria geniale che a metà degli anni ’90 ha rilanciato un prodotto che stava perdendo popolarità.

La Marmite, ormai considerata parte integrante dell’identità inglese quanto la monarchia e il rispetto della coda, è in realtà una invenzione tedesca. A metà del XIX secolo lo scienziato Justus von Liebig scopre che aggiungendo sale, il lievito di birra residuo si autodigerisce. Se concentrato, centrifugato e accompagnato da aromi naturali diventa più o meno commestibile. Di sicuro, lo era per i britannici di inizio ’900, che addirittura creano un polo di produzione a Burton-Upon-Trent, la capitale della birra.

Come fa notare il magazine economico inglese il fatto che venga distribuito usando una parola francese, “marmite”, lascia sospettare che aleggiasse anche tra i produttori qualche dubbio sulle sue credenziali gastronomiche. È il loro primo ricorso al marketing che però si rivelerà superfluo: in quell’epoca vengono scoperte le vitamine e la Marmite, che ne appare ricca (soprattutto di quella B) trova la sua collocazione. È un cibo salutare, non da gourmet. Tanto che perfino la rivista Lancet la raccomanda come cura per l’anemia.

Date le sue proprietà, diventa presto il nutrimento ufficiale dei soldati mandati in trincea nella Prima Guerra Mondiale e il sostegno per i prigionieri catturati in Europa nella Seconda. Come pubblicità – è un cibo che fa bene e aiuta a vincere le guerre – sembrava imbattibile.

Poi, come sempre accade, le cose cambiano e negli anni ’70 arriva il declino: da un lato viene meno il punto vendita principale, ossia le cliniche per le donne incinte, in seguito alla riforma del Servizio Sanitario nazionale. Dall’altro si impongono, tra le preferenze dei più giovani, i cereali. La caduta è lenta ma inarrestabile tanto che, all’inizio degli anni ’90, la Marmite è sull’orlo del fallimento. È in quel momento che entrano in gioco i pubblicitari Andy McLeod e Richard Flintham, della BMP DDB, incaricati di salvare la nave che stava affondando.

Non era semplice. Le ricerche e i sondaggi davano risultati impietosi: la Marmite era, per i consumatori, una cosa «schifosa» e somigliava «a una macchia nera spalmata sui toast». La strada per i due giovani creativi del marketing era in salita. Tanto che l’illuminazione – almeno così raccontano loro – arriva per caso, in un momento di stress: «Oh, come odio la Marmite», dice uno. «Io invece la amo», gli risponde l’altro. Ed ecco il filo conduttore della campagna – amore/odio – che ridà vita a un prodotto ormai moribondo.

Viene lanciata nel 1996 e si compone di una serie di spot collocati all’inizio e alla fine di un’interruzione pubblicitaria. Nel primo si vedono persone che litigano per mangiarla, i bambini cercano di afferarla e uno che addirittura ci fa il bagno – accompagnati dallo slogan “My Mate, Marmite”. Nel secondo invece ecco gente che la sputa, la respinge, ci infila spilloni (come fosse un voodoo) o la butta in acqua legata a un mattone. Lo slogan era, come ovvio, “I Hate Marmite”.

Per quanto possa sembrare strano, l’idea funziona. Gli sketch sono semplici ma spiritosi, la campagna è sbarazzina e comunica autoironia, ingrediente che all’epoca latitava parecchio. Proponendosi come prodotto che si ama o che si odia si attribuiva alla Marmite una certa personalità, con il messaggio implicito che sì, la Marmite c’era ed era lì per restare. Che la si volesse o meno. Risultato: le vendite ebbero un picco, soprattutto tra i giovani adulti, del 50% tra il 1995 e il 2001.

La sua seconda primavera (a indicazione che le disgrazie non vengono mai sole) ha luogo durante il lockdown. Per qualche oscuro motivo, la Marmite conosce un picco di vendite nei mesi più duri della pandemia, aiutata anche da una serie di ricette diffuse sui social che la impiegano come ingrediente principale, dal momento che è perfetta per il pubblico vegetariano e vegano.

Tuttavia alla base della sua popolarità rimane sempre l’idea di base, l’amore/odio che, come una sorta di inception, è entrato a far parte della psiche britannica e ha anticipato il meccanismo di polarizzazione in atto in questi anni.

Ogni nuovo prodotto a base di Marmite, ogni suo impiego, ogni sua versione, viene di conseguenza applaudita o contestata, messa al bando o premiata. Non ci sono mezzi termini, come vuole il mondo contemporaneo. E la Marmite, in questa contrapposizione molto profonda ma, per fortuna, poco importante, prospera.

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