Oltre BruxellesCome sopravvive il Belgio, lo stato fallito di maggior successo

Un Paese caotico, disordinato, iperburocratizzato, diviso ma creativissimo. Per resistere alle storie di ordinaria surrealtà quotidiane serve ironia, distacco e una certa mentalità zen

di Olivier Depaep, da Unsplash

Distacco ironico. Capacità di sentirsi a proprio agio in situazioni assurde. Consapevolezza tranquilla che tutto può accadere da un momento all’altro e stravolgere piani e aspettative, anche le più semplici e, infine, creatività burocratica, improvvisazione ed estro. È quello che l’Economist definisce “zen belga”. Ossia l’abilità dei belgi di sopravvivere al Belgio, senza farsi troppi problemi.

Perché le apparenze ingannano, ammonisce il magazine britannico: lo Stato è piccolo, ma complessissimo. E sebbene sia famoso per le patatine, Magritte, e il fatto di ospitare la capitale dell’Unione Europea («il cui scopo è trasformare la storia del continente un processo noioso anziché una serie di guerre sanguinose»), dentro ha un’anima nera e, soprattutto, caotica.

Nelle ultime settimane, per esempio, l’attenzione generale era stata catalizzata dal caso di Jurgen Conings, ex soldato e tiratore scelto che aveva dichiarato di voler uccidere il più importante virologo del Paese, Marc Van Rast. Dopo le sue minacce si era dato alla macchia e la ricerca, che ha coinvolto tutti gli apparati di polizia, con tanto di cani, è durata un mese. A ritrovarlo, morto, è stato un sindaco di una cittadina di periferia. Ma nel frattempo Conings, ormai ribattezzato “Rambo no-vax”, aveva fatto in tempo a diventare l’idolo delle destre complottiste, suscitando applausi e battute.

Ma ci sono anche altri casi. A partire dal sabotaggio della centrale nucleare di Doel nel 2014, costato centinaia di milioni di euro, che non ha suscitato più di tante reazioni. O la scomparsa dei piani per restaurare i tunnel sotteranei di Bruxelles, mangiati dai topi (così hanno detto le autorità). Il Belgio è noto per i suoi scarsi controlli di polizia – cosa che ha permesso alle organizzazioni terroristiche islamiche di prosperare e portare a segno diversi attentati, nel Paese e in Francia.

Il punto è qui: sopravvivere al Belgio, alle difficoltà imprevedibili, assurde quanto tragiche, richiede uno stato mentale particolare. Lo zen, appunto. Serve la capacità di vivere il senso del surreale, come nel caso del rapimento di Paul Vanden Boeynants nel 1989, già primo ministro del Paese, che venne liberato un mese dopo e fece una conferenza stampa in cui non si chiarì nulla dell’accaduto. Ma la conferenza stampa entrò subito in un remix che fece ballare tutti.

Serve anche avere un senso dell’ironia particolare. Il virologo Van Rast, mentre montava il sostegno social da parte dei no-vax per il soldato Cunings, non si è risparmiato una visita nelle loro chat. «Volevo vedere che idee creative venissero fuori qui», ha scherzato.

Necessaria, inoltre, una buona dose di pazienza. Perché il Paese, attaccato e disprezzato da tempo immemore dagli stranieri (basterebbe ricordare che Baudelaire definiva Bruxelles “città delle scimmie”), è un ammasso caotico di esperimenti politici, etnici, amministrativi e sociali. Prima di tutto, è burocratizzato all’inverosimile.

Ogni ufficio è un labirinto e ogni tentativo non dà mai la stessa risposta, ma dà l’opportunità agli impiegati di avventurarsi in soluzioni creative e bizzarre (da qui si spiega il successo di “Belgian Solution”, opera dell’artista – belga – David Helbich).

Il tutto in uno Stato che, scherza l’Economist, ha «una governance quantistica». È ovunque e non è da nessuna parte. Per 11 milioni di abitanti, ha un parlamento federale, uno per ciascuna delle sue tre regioni, più uno per le sue comunità etniche – francese, olandese, tedesco. Insomma, le amministrazioni si moltiplicano, dal particolare al generale, occupano la vita quotidiana di ciascuno, succhiano soldi pubblici e, in generale, riescono a confondere compiti e attribuzioni tanto che, alla fine, sembra che nessuno abbia davvero responsabilità di qualcosa. Non è un caso che per due anni e mezzo sia riuscito ad andare avanti bene anche senza un governo federale.

Tutta confusione nasce dall’obiettivo, finora non raggiunto, di armonizzare la convivenza tra le diverse componenti della popolazione. I confini interni sono tantissimi e impossibili da ignorare: ogni comunità ha le sue scuole (dove si parla solo quella lingua), i suoi media, il suo stile di vita. Sarebbe più facile una secessione, dove ognuno va per la sua strada. Ma il Belgio, si è capito, non è fatto per le cose facili.

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