Gli anni del dopoguerra «hanno potuto vedere l’espansione del diritto di parola in tutto il mondo occidentale ma, con l’ingresso di Internet nel mercato delle idee, molte di quelle che sembravano vittorie cominciano a sembrare debolezze». Con questa frase, contenuta nell’ultimo capitolo di “Dangerous Ideas: A Brief History of Censorship on the West, from the Ancients to Fake News” (The Westbourne Press), Erik Berkowitz riassume il problema centrale del dibattito di oggi: cosa si può dire? Cosa non si può dire? E soprattutto: che ruolo gioca la rete in tutto questo?
È il nodo più importante che, però, risulta difficile da sciogliere. L’autore fa una cavalcata lunga due millenni e 300 pagine elencando storie di censura, repressione della libertà di parola, chiusure. Ne trova quante ne vuole: parte da Roma (che decise di mettere al bando le discipline pitagoriche, considerate «sovversive») e passa per la Cina del primo impero, che in fatto di libri distrutti, idee messe al bando e tradizioni cancellate presenta somiglianze drammatiche con la Rivoluzione Culturale di Mao di 1.600 anni dopo.
Non manca la Francia di Luigi XIV, che cercava in ogni modo di controllare la pubblicazione di libelli pungenti, ribelli e salaci. O l’Inghilterra che ha strangolato e bruciato William Tyndale per avere tradotto in inglese, nel 1536, il Nuovo Testamento. La conclusione che ne trae è chiara: la censura esiste da sempre e la tentazione di reprimere il dissenso è inerente al potere.
A essere ricordati, certo, sono i casi limite: era rischioso mettere in dubbio il fatto che la regina Elisabetta potesse concepire, come mettere nelle mani sbagliate informazioni troppo preziose. Tenere sotto controllo le pubblicazioni significava evitare che alcune idee circolassero in ampia misura e guadagnassero un ampio pubblico. Ma ci furono eccezioni: il Capitale di Karl Marx, per esempio, non fu bandito perché, secondo le autorità, era troppo difficile, il popolo non avrebbe capito nulla e non sarebbe risultato un pericolo. Come spesso accade, valutazioni di questo tipo si rivelano, a sorpresa, molto sbagliate.
In ogni caso, la lezione è, di secolo in secolo, sempre quella: la censura è un fatto umano, fa parte della civiltà e una delle maggiori preoccupazioni del potere è proprio il controllo delle «idee pericolose». Il fatto che dopo la Seconda Guerra mondiale si sia imposto, in forma graduale e con inevitabili inciampi, un diritto alla libertà di parola è coinciso con una restrizione delle capacità di intervento delle autorità.
La visione liberale, che preferisce il confronto (pacifico) alla repressione diventa il principio (e spesso l’ideale) di condotta, anche a rischio di generare paradossi imbarazzanti. Berkowitz ricorda il caso di una corte canadese che si rifiutò di condannare il negazionista tedesco Erns Zündel, autore di “Did Six Million Really Die?”, libro con cui contestava la veridicità dell’Olocausto. Congelare la storia in una versione sola, spiegarono i magistrati, «avrebbe ripetuto gli errori dei regimi nazisti e comunisti». In Europa situazioni del genere sono più rare perché, ricorda, su alcuni temi esistono leggi che definiscono il perimetro di ciò che si può dire.
Il problema rimane comunque. E a renderlo ancora più complicato sono le evoluzioni degli ultimi decenni. Insieme «all’avvento delle aziende di internet come arbitri globali della libertà di parola, è cambiato anche il modo in cui viene vista la censura», scrive. Negli Stati Uniti, ma non solo, a chiedere maggiori restrizioni contro «pornografia e sessismo, razzismo, odio e discorsi offensivi, contro le fake news e contro gli eccessi dei ricchi e delle industrie» sono ambienti di sinistra. Una svolta, rispetto alle critiche al potere e all’autorità degli anni ’60. La cosa ancora più notevole è che le richieste non sono indirizzate solo agli organi istituzionali, ma alle multinazionali della rete stesse.
Il cambiamento avviene anche a rovescio. Da Trump in giù, arrivando ai populisti europei come Marine Le Pen e Matteo Salvini, il free speech è diventato un’arma politica di vittimizzazione. Non per niente i ritrovi dei Proud Boys sono chiamati “free speech rallies”, secondo la nuova concezione per cui «non si può più dire nulla» a causa delle dottrine uscite dalle università e dalla stampa liberal.
È una esagerazione e una astuzia al tempo stesso, che però ribalta i termini della questione. Una confusione che non aiuta la soluzione di dilemmi sempre più complessi. Alle idee pericolose si sono aggiunte le idee false (le fake news) favorite dalla diffusione dei social network come piattaforma di espressione planetaria. Un dato quantitativo che diventa qualitativo, visto che l’assenza di controllo (voluta o non voluta) ha influito nella realtà non digitale, orientando elezioni e scelte ideologiche. Un caos in cui si sono trovati indeboliti gli stessi social, attaccati da sinistra per non avere cancellato i post di Trump e poi da destra per avere invece cancellato l’account di Trump.
È il caso limite, forse quello più simbolico. In una situazione in cui si fatica a regolamentare le aziende del tech e dove si cerca una soluzione per definire il diritto di espressione rispetto a quello di non essere offesi (ma il problema è quando uno comincia a sentirsi offeso), chiedersi se Facebook e Twitter abbiano fatto bene a eliminare Trump dalle proprie piattaforme diventa decisivo. La risposta giusta (cioè “Sì”) non basta. Bisogna anche capire perché: come spiega John Kampfner sul Financial Times, le opzioni sono tre. Era da bandire perché è un pericolo? O perché è un bugiardo? O perché è un intollerante?
A seconda della risposta che si dà cambia il punto di vista sui limiti, riconosciuti o meno, su ciò che dovrebbe essere concesso dire o no.