Il Paese senza colpaIl lungo viaggio degli intellettuali antifascisti attraverso il fascismo

I compromessi con il regime, le adesioni giovanili ripudiate con il Dopoguerra, qualche ripensamento. Come racconta Simon Levis Sullam, la fine del Ventennio fu uno dei periodi più tormentati per molti studiosi e scrittori che dovettero fare i conti con i propri errori e il mondo cambiato per sempre

©Publifoto/Archivio Lapresse

Venendo al dopoguerra italiano più in generale e al suo contesto europeo, potremmo chiederci perché, a differenza di alcuni noti intellettuali tedeschi come il filosofo Karl Jaspers nel suo saggio La questione della colpa. “Sulla responsabilità politica della Germania” (1946), o lo storico Friedrich Meinecke nel suo libro pur non privo di ambiguità “La catastrofe della Germania” (1947), – senza citare qui le riflessioni coeve di grandi esuli come Thomas Mann o Hannah Arendt – gli intellettuali italiani non produssero allora riflessioni sistematiche sulle responsabilità italiane durante il fascismo. Proprio recensendo Jaspers, anzi, Benedetto Croce respingeva il concetto di colpa collettiva, concentrandosi in ogni caso sulla Germania e semmai notando che alle nazioni sconfitte spettasse di «rimettersi in piedi e fronteggiare nuovamente gli altri popoli».

Rispetto alle responsabilità addossate alla Germania e rivolgendosi implicitamente anche agli italiani, Croce scriveva in modo incidentale e attenuato: «Gli altri popoli badino di più alle “colpe” loro proprie (sempre che così si vogliano definire) perché ne hanno commesse e ne commettono». Se, è stato notato, nel dopoguerra «la “questione della colpa” non trovò in Italia una formulazione netta e sistematica», ma «emerse, piuttosto, in maniera indiretta e frammentaria da una varietà di interventi apparsi sulla stampa», l’implicazione dei singoli intellettuali nel fascismo fu invece segnata in genere dalla rimozione sul piano autobiografico pubblico.

Forse il principale ambito in cui – seppure in modo indiretto – la personale implicazione degli intellettuali italiani nel fascismo poté essere espressa in modo più esplicito nel periodo che qui consideriamo, cioè fino agli anni Cinquanta, fu quello letterario e in particolare nella narrativa, da parte quindi di alcuni scrittori.

Ciò fu probabilmente vero anche nel contesto francese rispetto all’implicazione degli intellettuali nel fascismo di Vichy e alla collaborazione con l’occupante tedesco: un periodo affrontato ad esempio – ma in chiave solo metaforica – in un romanzo influente come “La peste” di Albert Camus (1947).

In ambito italiano, fra gli intellettuali di cui abbiamo ricostruito il percorso, il più esplicito sul fascismo fu lo scrittore Moravia, seppure appunto nelle forme traslate della finzione, con il romanzo Il conformista pubblicato nel 1951. Come vedremo, questo libro fu anche, seppure non solo per questo motivo, quello che attirò le maggiori reazioni critiche da parte dei contemporanei.

Tra gli altri esempi che potrebbero essere fatti di questo indiretto autobiografismo politico da parte di alcuni scrittori, ricordiamo la rappresentazione del protagonista del romanzo di Vasco Pratolini, “Un eroe del nostro tempo” (1949), in cui l’autore potrebbe avere trasfigurati elementi della propria giovinezza fascista. «Per noi» – nota Bruna, uno dei personaggi antifascisti del romanzo – il giovane protagonista Sandrino, figlio di uno squadrista e a sua volta membro delle Brigate nere di Salò, «era un esempio della rovina a cui il fascismo aveva condotto la gioventù». E Sandrino stesso dice: «Sono stato fascista anch’io. […] Sono un “nero”, ho vestito la divisa fino alla vigilia dell’arrivo degli Alleati».

Noto e complesso è poi il caso di Cesare Pavese, con il suo tortuoso percorso tra fascismo e antifascismo, rielaborato letterariamente – sebbene soprattutto per il periodo della guerra civile del 1943-45 – nel romanzo “La casa in collina” (1948). Dello scrittore torinese è stato scritto che in quel libro «rivendic[ò] in prima persona un punto di vista comportamentale ed esistenziale alternativo alla visione celebrativa della Resistenza».

Più di recente si è sostenuto, d’altra parte, che Pavese «non mostr[ò] nessuna condiscendenza nei confronti del fascismo, denunci[ò] semmai l’ignavia propria e altrui che [aveva] consentito alla dittatura di durare», ad esempio nella dichiarazione della Casa in collina: «Abbiamo colpa tutti quanti; tutti dobbiamo pagare».

Del romanzo si ricorda anche il breve dialogo tra i personaggi Corrado (il protagonista) e Cate:

Non sei mica fascista? – mi disse. Era seria e rideva. Le presi la mano e sbuffai. – Lo siamo tutti, cara Cate, – dissi piano.

Una più esplicita descrizione letteraria dell’adesione al fascismo, rappresentata in forma ironica – e mediata, è stato suggerito, dall’incontro con Čechov –, è il racconto di Vitaliano Brancati, “Il vecchio con gli stivali”, apparso in rivista nella Roma liberata del 1944 e poi in volume nel 1945.

Qui si racconta emblematicamente la graduale, conformistica integrazione nella società fascista di un impiegato comunale di provincia e la sua successiva epurazione nel dopoguerra. Nello stesso periodo Brancati aveva scritto di se stesso, in un noto articolo poi raccolto nel volume “I fascisti invecchiano” del 1946: «Sui vent’anni, io ero fascista fino alla radice dei capelli». Diverso infine il caso, pure notevole sul piano letterario, di chi il fascismo ancora lo rivendicava dopo la sua caduta come il Giuseppe Berto di “Guerra in camicia nera”. Come ha ricostruito Domenico Scarpa, il romanzo doveva uscire da Einaudi avendo ricevuto l’approvazione di Natalia Ginzburg e Italo Calvino, ma fu infine pubblicato da Garzanti nel 1954. Proprio secondo la Ginzburg, in questo libro «si capi[va] bene cos’è stata la guerra in Africa, cos’è una guerra persa, si capi[va] persino cos’era il fascismo [s]eppure [Berto] ne parl[asse] pochissimo».

E un simile discorso – speculare ma di segno politico opposto – sulle riflessioni innanzitutto letterarie attorno alla vicenda del Ventennio potrebbe essere fatto, forse per desiderio affine di distanziamento da un’esperienza per altri motivi bruciante e dolorosa, anche per gli scrittori chiaramente appartenuti al campo antifascista già nel corso del fascismo. Ad esempio la stessa Natalia Ginzburg, che volle affrontare il periodo del fascismo prima nel romanzo “Tutti i nostri ieri”, pubblicato nel 1952; mentre solo più tardi vi tornò in forme più esplicitamente autobiografiche, con “Lessico famigliare” (1963).

L’aveva per certi versi preceduta Carlo Levi con “Cristo si è fermato a Eboli” (1945), che è anche una riflessione sul fascismo nella storia d’Italia scritta a Firenze in clandestinità nel 1943-45 da un antifascista e perseguitato “razziale”; mentre qualche anno dopo, nel romanzo politico “L’orologio” (1950), avrebbe fatto emergere elementi della memoria del fascismo, della guerra e della Shoah, pur rappresentandovi già anche la crisi dell’antifascismo specie azionista.

Tornando al contesto europeo, in una delle più precoci analisi dei fascismi del dopoguerra, la filosofa Hannah Arendt scriveva nel 1951: «I fattori sociali, non registrati dalla storia politica ed economica, nascosti sotto la superficie degli eventi, non [sono] mai percepiti dallo storico ma [sono] registrati solo dalla più penetrante e appassionata forza di poeti e romanzieri».

Più in generale potremmo pensare del resto a come la letteratura dia forma al senso delle identità individuali e collettive, in questo caso rispetto alle loro fasi violente e traumatiche. Com’è stato scritto in effetti a proposito del racconto letterario delle catastrofi del Novecento:

Raccontando le storie delle nostre vite e le storie delle nostre comunità, mettiamo alla prova i loro potenziali senso e coerenza. È centrale rispetto a questa visione l’accettazione che le identità narrative non sono mai stabili, fisse, definitive e prive di difetti. Al contrario [come ha sostenuto Paul Ricœur] «la storia di una vita non cessa di essere riconfigurata attraverso tutte le storie veridiche o di finzione che un soggetto racconta di se stesso».

In questo libro ci occuperemo quindi di come alcuni intellettuali italiani vissero le loro vite tra fascismo e postfascismo – delle loro transizioni e metamorfosi – e di come le riconfigurarono e raccontarono nel dopoguerra.

Forse non a caso Hannah Arendt, studiando il totalitarismo, si rivolse anche all’esperienza letteraria di Kafka che, scomparso prematuramente nel 1925, aveva anticipato in modo immaginativo – seppure certo risentendo anche del clima apocalittico del primo conflitto mondiale – la dolorosa e traumatica condizione dell’individuo nella fase più atroce del secolo, quella del totalitarismo fino allo sterminio.

Kafka, com’è noto, aveva fra l’altro dato forma tra il 1912 e il 1915 alla rappresentazione sconcertante della “metamorfosi”, anche come traduzione psicologica delle proprie colpe e, certo, del proprio disagio. Se non in modo specifico la traduzione della Metamorfosi kafkiana, che fu riproposta ai lettori italiani nel 1946, dopo essere uscita nel 1934 ed essere stata censurata dal fascismo (anche perché è difficile mettere in diretto rapporto quella rappresentazione con la condizione e i comportamenti degli intellettuali), almeno le riflessioni di Kafka e la sua sensibilità per la natura cangiante delle esperienze e della vita – della “verità” –, riprese via Arendt anche nell’esergo del nostro libro, possono quindi in qualche maniera accompagnarci nella ricostruzione e indagine dei mutevoli percorsi di vita che racconteremo qui, con i più modesti strumenti dello storico, pure non dissimili da quelli letterari.

da “I fantasmi del fascismo. La metamorfosi degli intellettuali italiani nel dopoguerra”, di Simon Levis Sullam, Feltrinelli, 2021, pagine 240, euro 19

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