Mentre Bruxelles parla, Budapest è espugnata. O quasi. Per una volta, perlomeno, il governo di Viktor Orbán si trova a fare i conti con i rubinetti chiusi anziché con gli ultimatum. A voler seguire gli indizi del primo colpo assestato in mesi all’autocrate magiaro, si finisce però appena fuori dall’Unione europea.
Il merito è infatti della Norvegia, che di fronte all’ennesimo braccio di ferro sullo stato di diritto e le libertà democratiche con Orbán e il suo Fidesz ha detto basta: la scorsa settimana Oslo ha infatti congelato i 214,6 milioni di euro di finanziamenti diretti all’Ungheria.
In realtà, benché gli scandinavi siano di gran lunga i principali donatori con il 95% del totale, non si tratta soltanto di fondi del Paese scandinavo, ma di “EEA and Norway Grants”, lo schema di aiuti messo in campo dai tre Stati extra-Ue dello Spazio economico europeo (EEA, appunto), che integra non solo la Norvegia ma anche Islanda e Liechtenstein nel mercato unico Ue.
Nel quadro precedente (2014-2021) erano 15 i Paesi Ue beneficiari degli “EEA and Norway Grants”, per un totale di 2,8 miliardi: dalla Grecia alla Polonia, dal Portogallo a Malta, lo strumento ha l’obiettivo di ridurre le disparità sociali ed economiche nel mercato interno.
A far saltare il negoziato con gli emissari di Orbán è stato lo scontro sulla gestione del fondo di sostegno alla società civile, elemento essenziale che fa parte integrante di ogni memorandum d’intesa che dà esecuzione agli “EEA and Norway Grants”: come spiegato dal ministero degli Esteri di Oslo in una nota, lo schema – dal valore di 9,6 milioni nel caso dell’Ungheria – non può essere infatti amministrato dalle autorità statali ma da un entità terza che fornisca garanzie di indipendenza, da scegliere sulla base di un bando pubblico e secondo criteri di competenza, esperienza e capacità gestionali.
Sulla modalità di selezione alla fine Budapest aveva ceduto, salvo recuperare la contrapposizione dopo l’individuazione della ong che si sarebbe occupata del fondo. Il nome del candidato prescelto non è stato reso pubblico, ma secondo fonti di stampa norvegesi si tratterebbe di un consorzio di ong legate alla fondazione Ökotars, che aveva già ricoperto il ruolo di manager del fondo in precedenza, finendo nel mirino di perquisizioni sospette e pure di un’indagine in patria nel 2014: episodi per cui già allora Oslo, Reykyavik e Vaduz erano ricorsi al blocco delle somme destinate a Budapest.
Insomma, una delle realtà della variopinta opposizione all’establishment orbániano che in Ungheria non hanno vita facile e che sono state colpite in pieno dai limiti alle donazioni estere superiori a 22mila euro che a dicembre dell’anno scorso è stato giudicato discriminatorio anche dalla Corte di Giustizia dell’Ue.
Norvegia, Islanda e Liechtenstein hanno messo nero su bianco che la situazione in Ungheria desta crescenti preoccupazioni e che, scaduto il termine ultimo fissato al 21 luglio scorso per la validazione dell’intesa, il rifiuto di Budapest di accettare l’ong selezionata comporta il mancato esborso dei finanziamenti.
«Non avevamo altra scelta. L’Ungheria non ha accettato quei principi base che abbiamo concordato con gli altri 14 Paesi beneficiari», ha spiegato il terzetto. L’impossibilità di raggiungere un’intesa per il post-2021, nonostante il negoziato fosse cominciato già cinque anni fa, era nell’aria già da mesi e le crescenti tensioni fra Budapest e il resto d’Europa dopo l’entrata in vigore della legge ungherese anti-Lgbtiq+ che vieta la diffusione di materiale informativo su omosessualità e identità di genere tra i minori e nelle scuole (condannata a più riprese da varie cancellerie del continente, Oslo compresa), non hanno fatto altro che confermare la strada tutta in salita.
A sentire la diplomazia norvegese, però, c’è amarezza per il nulla di fatto: «I fondi sarebbero stati un importante strumento di sostegno in particolare per la società civile ungherese, così come per promuovere i diritti delle minoranze», ha commentato la ministra degli Esteri Ine Marie Eriksen Søreide. «Ma sono state le stesse organizzazioni non governative ungheresi a dirci che la tutela della loro indipendenza è più importante del concreto aiuto economico. Troveremo altri modi per sostenerle, ma non sarà facile; in Ungheria si stringe la morsa dello Stato sull’operato delle ong», ha detto a Politico.eu.
Passano al contrattacco, invece, dal cerchio magico di Orbán: «La Norvegia ci deve quei soldi; ci spettano. Oslo partecipa al mercato unico Ue e gode dei suoi vantaggi, pur non facendo parte dell’Unione, e non dovendosi far carico del rispetto di altre regole o di contribuire al lancio comune. Troveremo un modo per recuperarli».
Non è la prima volta che Oslo decide di mettere un freno all’erogazione dei sussidi: oltre allo stop sette anni fa per le pressioni esercitate dal governo ungherese rispetto alla gestione del programma, nel mirino finì anche la Polonia, seppure con rispetto soltanto ad alcuni capitoli di spesa, in risposta al declino dell’indipendenza della magistratura e alla proclamazione di alcune città come “Lgbtiq+-free”.
Dopo gli sviluppi delle scorse settimane, con lo stallo nell’approvazione del Recovery Plan ungherese e l’apertura da parte della Commissione della procedureadi infrazione in reazione alla recente legge liberticida, l’esempio del trio non-Ue può fornire un assist prezioso a Bruxelles per mettere Orbán con le spalle al muro facendo, ad esempio, ricorso al meccanismo che condiziona l’erogazione dei fondi Ue al rispetto dello stato di diritto, come ha chiesto formalmente il Parlamento europeo, paventando pure la possibilità di portare l’esecutivo von der Leyen davanti alla Corte di Giustizia in caso di prolungata inazione.
L’Europa secondo Orbán – non è un mistero – è un generoso Bancomat. Ma allo sportello più a nord – quello da cui si vedono fiordi e aurore boreali – hanno deciso di abbassare la serranda e di bloccare il conto corrente. Parlare a Budapest perché Bruxelles intenda?