Ora accade che in Occidente, e particolarmente in Europa, dove erano andati maggiormente espandendosi, i diritti umani hanno coinvolto, con l’intera complessità della persona, i diversi patrimoni religiosi e culturali, la cui varietà – lo si è detto – era all’origine della libertà di pensiero, e che proprio in quest’ottica chiedevano rispetto.
Il fatto è però che in origine quella varietà apparteneva pur sempre all’universo cristiano, mentre tra le varie culture che migrazioni e integrazioni hanno portato a convivere nel continente, alcune sono portatrici di costumi e valori che contrastano con i principî fondamentali dell’etica e del diritto occidentali. Si è verificato allora un perfetto, ed esplosivo, incontro di opposti: la cultura europea-occidentale è divenuta col tempo sempre più tollerante e incline al multiculturalismo, l’altra, quella islamica, benché frammentata al suo interno, nei confronti dell’Occidente cristiano è invece ferma nella rigida ortodossia.
Nella seconda, oltre a costumi e rivendicazioni particolari, hanno dunque potuto allignare le minoranze armate di cui si è detto, mentre nella prima si esercitava la massima tolleranza e financo comprensione. Ancora una volta, la condizione delle donne e i loro costumi – tipicamente l’uso del velo, o la pratica della bigamia – diventavano simboli di una opposizione culturale.
Il velo islamico, il hijab, oppure il burqa, che in Occidente trasgrediscono le norme che vietano di nascondere la propria identità, sono invece riconosciuti come segno di affermazione identitaria, come rifiuto di sottomettersi ai codici assimilativi e «tirannici» delle maggioranze, e perciò in alcuni casi sono ammessi come esempio di pluralismo religioso tutelato dagli ordinamenti. Come tali, come aspetti della cultura d’origine degni di tutela, alcuni tribunali europei hanno giustificato anche la bigamia, o le violenze di mariti sulle mogli, e perfino l’infibulazione è stata tollerata quando è praticata in comunità immigrate in Occidente, dalla Svezia agli Stati Uniti.
La proliferazione di queste politiche irrigidisce le varie identità culturali e potenzia i conflitti. Tratti culturali – a volte basati su tradizioni storicamente poco fondate, o appositamente ricostruite (vale per i cambiamenti di toponimi come del nome di intere nazioni: se ne è fatto un esempio nel caso di Bombay) – vengono in tal modo privati di ogni flessibilità e costruiscono nuovi confini identitari.
Accade così che tante forme di meticciato e di mescolanza che caratterizzano il gusto occidentale moderno – nell’abbigliamento, nell’arredamento, nelle decorazioni, nonché nella pratica di tatuaggi, monili, abbigliamenti e acconciature – vengano denunciate come «appropriazione culturale».
Definiti per opposizione, «contro» qualcuno, similmente a quanto accade nel nazionalismo o nel razzismo, i segni identitari di singoli gruppi, sottogruppi, microgruppi o segmenti sociali assorbono le identità individuali con particolare rigidità e ne fanno appartenenze ideologicamente cariche che impongono osservanza. Discostarsene, o manifestare il dubbio, proporre un confronto di opinioni, può presentarsi come tradimento, come resa al nemico o perdita di identità.
Sono questi i motivi che ci fanno avanzare l’ipotesi che la stessa espansione dei diritti agisca in opposizione alla convenzione originaria. Se questa era intesa ad abbracciare la molteplicità entro un comune paradigma di valori, e dunque proponeva di disconoscere le differenze, nonché – nel dettato del 1948 – di stimolare «la comprensione, la tolleranza, l’amicizia fra tutte le Nazioni, i gruppi razziali e religiosi», non si può dire che l’obiettivo sia sempre stato raggiunto.
Nel caso del confronto tra cristianità e islam, o nel caso del confronto tra bianchi e neri, e in certe circostanze anche nel caso dell’incontro tra donne e uomini, l’amicizia auspicata dalla Dichiarazione del 1948 non ha fatto molti progressi. Una parte, quella cristiana, bianca e maschile, è sub judice, e avendo perso la sicurezza di incarnare i valori «universali» tende a mettersi in dubbio, riflettendo sulle proprie colpe storiche.
da “Nelle mani del popolo. Le fragili fondamenta della politica moderna”, di Raffaele Romanelli, Donzelli, 2021, pagine 208, euro 32