Sembra ironico, ma non lo è: la storia di Ita – la compagnia di volo che nasce dalle ceneri di Alitalia – comincia proprio con uno sciopero. I sindacati hanno proclamato le agitazioni per il 24 settembre, poche settimane prima del formale battesimo del nuovo gruppo, previsto per il 15 ottobre. Per comprendere quello che sta succedendo, bisogna rinunciare alla logica aziendale e guardare i fatti da un’altra prospettiva: la razionalità politica.
Il modello di business di Ita è, semplicemente, insostenibile: anche se non ci fosse di mezzo il drastico crollo dei voli causato dal Covid, l’azienda è troppo piccola e ha una struttura dei costi incompatibile con le sue possibilità. Infatti, sul mercato regionale non riesce a tenere il passo della concorrenza sempre più aggressiva delle low cost; e, nei più remunerativi viaggi intercontinentali, non ha le dimensioni per sottrarre quote di mercato ai colossi europei.
Queste sono le ragioni per cui l’Alitalia pubblica è andata a picco nel 2008; sono le ragioni per cui i capitani coraggiosi che l’avevano rilevata hanno dovuto gettare la spugna; sono le ragioni per cui Etihad, che ne aveva assunto il controllo nel 2014, è stata estromessa tre anni più tardi; e sono le ragioni per cui neppure l’amministrazione straordinaria che ne ha preso il controllo negli ultimi anni non ha saputo fare di meglio.
Sono, insomma, le ragioni per cui dal 1974 a oggi i pochi anni in cui la compagnia ha chiuso il bilancio in attivo sono stati preceduti o accompagnati da robuste iniezioni di denaro pubblico, e questo fenomeno si è (ovviamente) aggravato con l’apertura del mercato aereo europeo negli anni Novanta. Tutto ciò, beninteso, è noto, e da anni, a tutti: lo sanno i sindacati, lo sanno i lavoratori, lo sanno i potenziali investitori, lo sanno i funzionari pubblici, lo sanno gli esponenti del governo.
Ma allora perché i dipendenti sono pronti ancora una volta a incrociare le braccia per difendere una situazione indifendibile? La risposta è banale: ciò che socialmente rappresenta una distruzione di valore, individualmente è invece una scommessa che, finora, è stata in gran parte vinta.
L’attuale fase della storia di Alitalia comincia nel 2017, quando i lavoratori bocciano clamorosamente, con un referendum interno, il piano di ristrutturazione predisposto da Etihad. A quel punto la compagnia avrebbe dovuto fallire: invece intervenne il Governo, promettendo di trovare rapidamente un nuovo compratore. Le cose andarono diversamente: intanto perché furono i lavoratori stessi a boicottare ogni possibile negoziato, e poi perché tutti i governi successivi hanno non solo confermato la scelta del salvataggio, ma hanno pompato sempre più denaro nelle casse esauste di Alitalia.
L’avventura di Ita, insomma, inizia macchiata da un peccato originale, che è l’incapacità della politica di prendere atto dell’impossibilità economica del vettore di bandiera, come ha spiegato Andrea Giuricin in questo studio dell’IBL. Se le cose sono sempre andate così, se la politica si è sempre piegata ai diktat dei sindacati di Alitalia, perché mai questa volta dovrebbe essere diverso? Dal loro punto di vista, i sindacati fanno benissimo a tirare la corda, perché l’intero arco della politica italiana ha dimostrato non solo di non essere pronto a spezzarla, ma anzi di volerla sistematicamente ingrassare col denaro pubblico.