Repetita stancantCome mai si fanno sempre più remake degli stessi film

Il fenomeno è sempre più vasto e diffuso. Le ragioni sono tante: guadagni sicuri e successi immediati in primo luogo. Ma anche il desiderio autoriale di qualche regista di mettersi alla prova con opere che lo hanno segnato

immagine da "Perfetti sconosciuti"

Per adesso sono arrivati a quota 21, ma è già un record. Il numero di remake fatti in cinque anni di “Perfetti sconosciuti”, il film del 2016 del regista italiano Paolo Genovese, è già un fenomeno in sé. Ne esiste una versione in polacco, un rifacimento ungherese, un altro fatto in Turchia. E ancora tante altre, fino al punto da chiamare in causa il Guinness dei primati.

Addirittura, come ricorda questa inchiesta (la prima di sei parti) di Le Monde, a Genovese capita spesso di ricevere complimenti per il suo rifacimento. «Mi potresti dare i riferimenti dell’originale?» Sono cose che non infastidiscono più nemmeno ma, al contrario, portano a riflettere: non tanto sulle ragioni del successo del film, quanto su quelle del fenomeno remake. Perché si rifanno opere già fatte? E perché negli ultimi tempi è diventato un fenomeno così diffuso?

I casi sono tanti. “CODA” è il remake americano del “La famiglia Bélier”, film francese del 2014. Mentre “La casa di carta” avrà presto un remake sudcoreano, e il sudcoreano “Parasite” diventerà anche una serie per Hbo. Da un lato ci sono ragioni commerciali: quello che funziona una volta, si pensa, funzionerà due volte, soprattutto se lo si presenta a un pubblico un filo diverso, o con una formula un po’ modificata e nuova.

Secondo il regista italiano Luca Guadagnino, anche lui intervistato dal giornale francese, la questione è più personale. Lui ha già realizzato remake come “A Bigger Splash”, nel 2015, che si rifà a “La piscina” di Jacques Deray, del 1969. Ma anche “Suspiria”, nel 2018, che rifà l’omonimo film di Dario Argento del 1977. Il terzo sarà “Scarface”, con i fratelli Coen alla sceneggiatura, che rappresenta addirittura un tris: dopo quello storico di Hawks del 1932 e quello ben più famoso di Brian de Palma del 1983. In tutti i casi si tratta, spiega, di confrontarsi con opere del passato che lo hanno segnato in modo profondo. Li definisce «remake intimi», con cui fare i conti con vecchie ossessioni.

In questo senso sarebbe più un gesto psicoanalitico, un modo per riflettere di nuovo su ciò che aveva emozionato prima. Il risultato si ottiene con nuove calibrature, cambiando cioè ambientazione (il suo “Scarface”, per esempio, è californiano), e aggiungendo aspetti che nelle opere precedenti erano stati trascurati o rimossi. Come con “Suspiria”, dove introduce il tema dell’estremismo di sinistra.

Ma è solo una parte della spiegazione. Un’ipotesi è che, nell’epoca della totale accessibilità ai prodotti culturali, viene meno la necessità di idee e storie nuove, ma si accarezza la scelta di riprendere qualcosa dal passato. È retromania? È voglia di rifugiarsi nel passato e, magari, renderlo un po’ più confortevole? La verità è che questa spiegazione può valere fino a un certo punto, cioè per le scelte autoriali di registi raffinati. A dominare il panorama dei remake è il consumo immediato, cioè il rifacimento di prodotti appena usciti, come è il caso appunto di “Perfetti sconosciuti”.

Qui è la sovrabbondanza di canali e piattaforme, ormai globali, a imporre ritmi accelerati alle produzioni. Ogni bouquet di offerte deve essere rinnovato in tempi brevi, le proposte devono essere continue e in linea con un’idea generale di qualità. Per questo le storie già usate ed efficaci sono il miglior terreno di caccia. Per Genovese “Perfetti sconosciuti” non impedisce i remake (e si è visto) ma i termini del contratto impongono che il regista abbia la priorità su chiunque altro voglia dirigere il nuovo film. Lui però si è sempre rifiutato.

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