Il tratto del genioQuando è nata la creatività

È un concetto più recente di quanto si pensi. Stefano Bartezzaghi nel suo ultimo libro (Bompiani) scrive che è una creatura lessicale tanto spuria quanto polivalente che attribuiva senza più pudore a ogni essere umano una potenzialità semidivina

di Jr Korpa, da Unsplash

Il sociologo Andreas Reckwitz ha descritto il manifestarsi della creatività come un evento «privo di precedenti storici, che appartiene all’ultimo terzo del ventesimo secolo, era in preparazione dalla fine del diciottesimo e in marcata accelerazione dall’inizio del ventesimo».

La periodizzazione è approssimativa (come è saggio che sia) e non è indiscutibile (come è normale che sia): ma quello che più ci interessa è il fatto stesso che una periodizzazione sia possibile. All’assenza di precedenti storici Reckwitz si riferisce nel suo libro intitolato “L’invenzione della creatività”: titolo quasi provocatorio, se si pensa che la creatività, come tutte le altre mitologie sociali, viene per il solito presentata come emanazione naturale.

Sono molti gli autori, oltre al sociologo tedesco, che collocano i prodromi della creatività alla fine del Settecento. Il riferimento rimanda al Romanticismo e all’idea dell’arte come creazione umana: «Sdegno il verso che suona e non crea», scrive Ugo Foscolo, nel poemetto dedicato alle divinità latine della bellezza Le grazie (1812).

Fino a quel momento chi avesse accostato la Creazione al fare umano avrebbe commesso blasfemia e del resto anche il Romanticismo stesso ha considerato l’arte e l’ingegno umano come un atto polemico dell’essere umano verso un dio.

L’Homo sapiens traffica con gli “elisir del diavolo”, si allea con il maligno, desidera la maledizione. Ancora il Doctor Faustus di Thomas Mann attribuisce l’ispirazione artistica (nella forma estrema dell’invenzione di un nuovo linguaggio musicale) a un’ambigua sovrapposizione tra allucinazione malata, follia e patto satanico.

Quando oggi parliamo di creatività, però, siamo decisamente lontani dai vapori che fumigano dalle beute degli alchimisti o da fiammelle che annunciano tormenti infernali.

“Creatività” è prima di tutto una parola, occorre non dimenticarselo. Possiamo provare a rintracciarne la formazione e l’evoluzione mediante i dizionari storici. Per il dizionario del Battaglia (1961-2002) la prima attestazione del lemma “creativo” è in un passaggio del commento dantesco di Francesco da Buti, la cui edizione originale è del 1395: «[…] la potenza di Dio creativa». Siamo dunque nel pieno nucleo semantico primigenio della parola: la creazione come atto divino che fa essere il mondo. Questa accezione può dare luogo a metafore: per esempio il «soffio creativo della filosofia» (Ippolito Nievo, Confessioni di un italiano, 1857-58).

Il primo uso in italiano di “creativo” applicato all’arte è della fine del Settecento, nella Vita di Vittorio Alfieri: «Gran parte delle mie facoltà intellettuali e creative». Per l’epoca era un azzardo audace, più di un secolo dopo era ancora una suggestione: «La poesia deve essere […] senza contenuto dottrinale, puro atto, attimo creativo» (Alfredo Panzini, La cicuta, i gigli e le rose, 1922-23).

Nel frattempo era intervenuto l’idealismo filosofico. Il Battaglia (1961-2002) cita Benedetto Croce: «Perpetua creatività che è di tutte le forme spirituali» (1932); il dizionario di Tullio De Mauro (1999) retrodata il lemma “creatività” al 1920, attestandone la presenza nella Teoria generale dello spirito come atto puro di Giovanni Gentile.

“Creativo” è quindi un aggettivo che dal tardo Trecento si riferisce alla potenza di Dio; dalla fine del Settecento comincia ad avere qualche primissimo impiego in riferimento alla “creazione” da parte dell’essere umano e dell’artista, diventa termine tecnico dell’idealismo, che è la sede da cui si genera il suo sostantivo astratto: “creatività”.

Tra le attestazioni riportate dal Battaglia (1961-2002) la più significativa è però quella tratta da Furor mathematicus di Leonardo Sinisgalli:

L’attenzione di Leonardo fu rivolta a scoprire, a indagare, a coordinare alcuni fenomeni tipici della persona poetica. Si potrebbe dire ch’egli ci diede i primi suggerimenti per comporre una fisiologia del poeta. Capì innanzitutto la fulmineità dell’atto creativo.

Come in uno strano crocevia il libro del tutto anomalo e originale di Sinisgalli è il punto in cui si incontrano strade provenienti da quartieri che sino ad allora venivano comunemente ritenuti distare parecchio: la poesia e la fisiologia, per esempio. La citazione viene dal capitolo intitolato “Poetica di Leonardo” e per scansare possibili equivoci andrà specificato che il soggetto è Leonardo da Vinci, di cui in un capitolo successivo Sinisgalli commenterà gli studi ornitologici compiuti in vista della realizzazione del volo umano.

Sotto il segno dell’atto creativo sembrano potersi riunire impulsi, mentalità, indicazioni del tutto disparate. La creatività si conferma animata innanzitutto dalla volontà e dalla capacità di tenere assieme cose diverse, di collegare attraversando, come una formula alchemica.

Lo stesso titolo di Sinisgalli, Furor mathematicus, rimanda alla dottrina platonica della mania, di cui il furor è la versione latina. Di questo libro però interessa anche la data di uscita: il 1950. In quell’anno Joy P. Guilford (1897-1987) aveva aperto a Washington il congresso dell’American Psychologist Association da lui presieduta con una prolusione intitolata Creativity. Come si è visto altrove, fu presumibilmente quello il big bang della creatività.

Usi precedenti del termine non erano certo mancati. Ma si è anche detto che una parola nasce quando viene pronunciata la prima volta e però comincia davvero a vivere quando “entra in società”, cioè quando qualcuno la ripete. È con la presentazione di Guilford che il termine comincia a influenzare non solo gli psicologi ma tutti coloro che avvertivano la rilevanza crescente di un tema che si andava delineando.

Solo due anni dopo, Ghiselin nel suo già ricordato The Creative Process avrebbe assimilato testi tratti da autori lontanissimi nel tempo e negli interessi: da Wolfgang Amadeus Mozart ad Albert Einstein, da Van Gogh a Gertrude Stein. Sin dal primo capitolo riuscì a trovare creatività nella matematica, con l’accortezza di ritradurre come “Mathematical Creativity” il capitolo di Science et Méthode che Henri Poincaré aveva intitolato “L’invention mathématique” (Ghiselin, 1952).

Si affacciava così alla scena del mondo una creatura lessicale tanto spuria quanto polivalente. La creatività attribuiva all’essere umano, a ogni essere umano, una potenzialità semidivina; la denominava ma la dichiarava indefinibile e le attribuiva la responsabilità di generare una varietà di prodotti capace di andare dagli estri poetici e artistici agli espedienti dei trafficoni. Un abbassamento del genio, messo alla portata dell’uomo della strada; una redenzione della furbizia, elevata perlomeno alla dignità dell’arguzia inventiva.

Non a caso dedicheremo il prossimo capitolo a “Come si inventa una fandonia, un motore ad aria fredda, una nuova materia plastica?”.

Quando la creatività ha cominciato a esserci era la metà del Novecento. Avanzava l’alfabetismo, le comunicazioni di massa si apprestavano ad arrivare capillarmente a tutti, il capitalismo occidentale scartava l’opzione politica totalitaria (forse perché divenuta ormai superflua), nuovi indirizzi disciplinari superavano il dualismo umanistico/scientifico, la tecnologia e il marketing acceleravano le ricerche in vista della produzione e diffusione dei consumi.

Nuove ragioni e nuove mitologie entravano in scena. Servivano anche nuove parole o – più precisamente – nuovi discorsi.

da “Mettere al mondo il mondo. Tutto quanto facciamo per essere detti creativi e chi ce lo fa fare”, di Stefano Bartezzaghi, Bompiani, 2021, pagine 240, euro 18

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