Amabili restiA Milano si studia la violenza del passato a partire dall’archeologia

Il Centro Labanof dell’Università Statale, che ha da poco compiuto 25 anni, è un caso unico in Europa: esamina i corpi delle vittime di morte violenta di ogni epoca, gettando nuova luce sulle vite di intere società. E scoprendo che alcune cose non cambiano mai

Audrey Amaro/Unsplash

Nel 2019, il New York Times l’ha celebrata come «la capitale italiana che sta allargando i suoi orizzonti»: eppure basta un tuffo nella storia, per vedere una Milano diversa e, soprattutto, molto violenta. Di questo si occupa il Centro Labanof, il Laboratorio di antropologia e odontologia forense nato in uno stanzino dell’Università di Milano 25 anni fa, e un esempio unico in Europa. Oggi il centro si occupa dell’identificazione dei corpi di chi non ha nome, come i migranti naufraghi, ma non ha perso la sua vocazione archeologica, che usa gli stessi metodi per esaminare i corpi di chi moriva di morte violenta in passato, tra cui i martiri. «E non solo. Secoli fa abbiamo avuto donne maltrattate, decapitate, uomini uccisi: con l’archeologia e la giurisprudenza, è per noi interessante capire come questi episodi ancora si ripetano» spiega Cristina Cattaneo, direttore del Labanof e professore di Medicina legale all’Università di Milano. 

Per Cattaneo, esaminare gli scheletri antichi non è solo un modo per ricostruire la loro storia: «I martiri sono anche le prime vittime di discriminazione», spiega. Per gli scienziati che indagano il passato, il problema principale è l’assenza di fonti: «I documenti storici parlano di personalità importanti della città, c’è poco sui più vulnerabili. La scienza aiuta a tracciare un quadro più preciso: oggi parliamo di femminicidio e vittime di violenza, ma sappiamo come vivevano le donne di una città come Milano, per esempio?».

Un grande aiuto nella ricostruzione viene da sant’Ambrogio, il vescovo milanesissimo che nel Trecento non solo fece cercare i resti dei martiri di cui aveva sentito parlare – come nel caso di san Nazario, rinvenuto tra il 395 e il 397 – ma traslò anche reliquie da altre città come Lodi, dove l’imperatore Massimiano aveva fatto giustiziare tre soldati di colore, Nabore, Felice e Vittore. Per razzismo e ostilità alla loro religione, i primi seguaci di Cristo furono oggetto di violenze e torture. Spesso le loro storie sono così inverosimili che è impossibile pensare si tratti di fatti realmente accaduti: chi crederebbe che san Giorgio – come narra la leggenda – fu resuscitato per essere sottoposto ad altre torture?

Eppure, nell’intento di mostrare le loro virtù eroiche, le leggende nascondono una verità di fondo: in molte città tardoantiche e medievali la violenza era diffusa e compiuta alla luce del sole. 

Un esempio clamoroso è stato studiato dal Labanof nel 2018 e riguarda due santi di Milano, Gervasio e Protasio. «È un caso in cui la leggenda e la realtà combaciano», spiega Cattaneo. La storia dei due martiri, scoperti da sant’Ambrogio che si volle far seppellire in mezzo a loro, racconta di due fratelli: «Dalle ossa abbiamo visto che erano molto alti, il loro profilo biologico ci dice che avevano circa 20 anni. Sappiamo anche della loro dieta: mangiavano molte lenticchie». Ma cosa ci dice la scienza sulla loro morte? I dati scientifici sono impressionanti: «Sul corpo di Protasio, due vertebre cervicali sono state coinvolte da una lesione netta, è lui il decapitato», spiega Cattaneo, che sottolinea come la decapitazione sia avvenuta, con tutta probabilità su un ceppo. Ma c’è qualcosa di più: «Sulle caviglie di Protasio c’erano due lesioni dovute a una veloce infezione ai piedi: con tutta probabilità, è stato imprigionato e incatenato 3/4 settimane prima di essere giustiziato». Il fratello Gervasio non fu decapitato, ma ucciso a percosse: «Sulla falange di una mano c’è una lesione da taglio: forse il giovane ha cercato di difendersi mentre veniva fustigato». 

Gli esami del Labanof sono un bell’esempio di scienza e religione che combaciano e mostrano che, nelle nostre città, la violenza era all’ordine del giorno. Nelle fonti agiografiche, i martiri sono definiti biaiothanès, che in greco significa «morti di morte violenta». Nella storia più antica tendiamo a giustificare la violenza, pensando che fosse dovuta alla povertà o alla fame. Niente di tutto questo, anzi i più violenti erano spesso anche i più ricchi: chi non ricorda il duello mortale tra squadre nobiliari per le strade di Verona nella tragedia shakespeariana “Romeo e Giulietta”?

Nel libro “Il declino della violenza” lo scienziato cognitivo Steven Pinker mostra, con statistiche alla mano, che in passato la vita fu molto spietata. Pinker cita lo studio dei martiri perché rivela quello che chiama «radicalismo omicida» verso alcuni gruppi sociali discriminati.

Nel 1986, la rivista scientifica dell’American Medical Association ha condotto uno studio sul supplizio fisico di Gesù Cristo in Palestina, basandosi su fonti scritte cristiane e non: i dettagli del suo martirio sono al limite dello splatter. La flagellazione era così violenta, riporta lo studio, che «le lacerazioni arrivavano ai muscoli scheletrici e producevano strisce tremolanti di carne sanguinante». Il dissanguamento era tra le cause di morte di chi veniva crocifisso, tanto quanto l’asfissia, perché il peso del corpo che pendeva, trattenuto solo dai chiodi ai polsi, dilatava la gabbia toracica impedendo alla vittima di respirare. È difficile per noi comprendere un tale accanimento.

Ciononostante, oggi non possiamo stare proprio tranquilli, perché la violenza ha da sempre accompagnato l’uomo, anche con la fine dell’impero romano e l’inizio di quelli “moderni”. L’antropologo René Girard parla di «linciaggio spontaneo» e descrive così gli episodi violenti delle metropoli occidentali. Il 14 marzo 1891, per esempio, nove siciliani emigrati a New Orleans, furono linciati barbaramente dalla città. Alberto Bonanno ha ricostruito l’intera storia su Repubblica: «Sei prigionieri che avevano provato a scappare da una scala di servizio furono raggiunti e portati in un cortile interno, dove furono uccisi a fucilate. Tra loro c’era Monasterio, che ferito a morte supplicò i suoi carnefici di sparargli il colpo di grazia. Abbagnato fu impiccato a un albero dopo essere stato ferito. Polizzi fu trovato in un sottoscala a balbettare frasi sconnesse: gli fu passata una corda al collo, e il disgraziato venne issato su un lampione. L’uomo riuscì ad arrampicarsi con le sue mani, ma la folla lo finì a colpi di pistola in un macabro tiro al bersaglio. Si salvarono solo Matranga e Incardona». Come il protagonista della fortunata serie Dexter, nella violenza metropolitana si nasconde una presunta ricerca di giustizia, un riflesso della classica “resa dei conti”. Ne ha scritto il giurista Donald Black, che in un articolo spiega come, tutto sommato, i crimini delle società moderne non siano poi così diversi da quelli compiuti nel Medioevo.

Arrivando ai nostri giorni, il fenomeno ha cambiato pelle: che sia un attacco terroristico o le varie forme di accanimento sul web, oggi sta avvenendo una trasformazione che alimenta un narcisismo della violenza. È quella che Michael Ignatieff chiama ne “Il male minore” la sindrome di Erostrato, dal nome del giovane greco che bruciò un tempio solo perché si ricordasse il suo nome. È lo stesso atteggiamento implicito in gran parte dei terroristi e hater: distruggere l’altro per dare un senso alla propria vita. «Non vorrei che, studiando il passato, ci ritenessimo una società migliore» – conclude Cattaneo – «basta guardare un barcone per capirlo. Oggi, però, abbiamo strumenti in più per migliorare le nostre società».

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