Un Paese part-time. Se il Pil vola oltre le aspettative, la ripresa del mercato del lavoro italiano è tutt’altro che solida. Anzi, l’occupazione post pandemia poggia sempre più su contratti deboli e a costi ridotti. Oltre un terzo (35,7%) dei 3,3 milioni di contratti attivati nel primo semestre di quest’anno sono part time. E in gran parte dei casi si tratta di «part time involontario». Il che significa che non è certo il lavoratore a chiederlo, ma l’impresa. Con l’obiettivo di risparmiare sul costo del lavoro.
È quella che l’Inapp, Istituto per l’analisi delle politiche pubbliche, definisce una «ripresa a tempo parziale» dopo aver realizzato l’analisi dei nuovi rapporti di lavoro attivati. «La lettura di questi dati ci dice che la ripresa dell’occupazione in Italia rischia di non essere strutturale perché sta puntando troppo sulla riduzione dei costi tramite la riduzione delle ore lavorate», dice il presidente di Inapp Sebastiano Fadda. «La “prudenza delle imprese” rischia di incrementare la fascia di lavoratori poveri e il gap di partecipazione e reddito esistente tra uomini e donne». Ma anche tra nuove e vecchie generazioni
A giugno di questo anno, dei 3.322.634 contratti complessivamente attivati (di cui 2.006.617 a uomini e 1.316.017 a donne), oltre un milione e 187 (il 35,7%) sono part time. Con rilevanti differenze di genere: quasi la metà (il 49,6%) delle nuove assunzioni di donne è a tempo parziale, contro il 26,6% degli uomini. E il 42% dei nuovi contratti firmati dalle donne affianca al part-time pure una forma contrattuale a termine o discontinua. Una caratteristica che invece riguarda solo il 22% della nuova occupazione maschile.
Non solo. «L’essere under 30 e vivere al Sud continua a rappresentare una condizione di svantaggio ulteriore», spiega Fadda. «Il traino del Piano di ripresa e resilienza dovrebbe essere invece l’occasione per spingere sulla creazione di lavoro stabile, perché senza la prospettiva di una graduale stabilizzazione dei rapporti di lavoro si rischia di avere effetti negativi sulla produttività e sulla competitività».
I contratti delle donne rappresentano nel primo semestre di quest’anno appena il 39,6% del totale delle attivazioni, ben inferiore rispetto agli uomini. E sul totale dei nuovi contratti al femminile, sono part time il 54,5% di quelli a tempo indeterminato, il 63,7% di quelli a termine , il 44,5% in apprendistato, il 45,9 % del lavoro stagionale e il 42,4% % di quelli in somministrazione.
Nel caso dell’agricoltura, commercio, attività immobiliari, professionali, artistiche e amministrazione pubblica istruzione, sanità e assistenza, i nuovi contratti part time costituiscono la forma di lavoro prevalente per le donne, superando anche il 50%.
E le condizioni peggiori si registrano al Sud, in particolare in Calabria, Sicilia e Molise. Non solo perché in termini assoluti il numero di contratti attivati è più basso rispetto al Nord, ma anche perché l’incidenza del part-time supera il 70%, a conferma della instabilità di prospettiva della ripresa.
Part time e precarietà non si sono ridotti con sgravi e incentivi. Lo studio evidenzia come delle 291.548 assunzioni agevolate di donne, quasi il 60% resta a part time. Delle 488.580 assunzioni agevolate di uomini, il part time è fermo al 32,5%. Quasi la metà.
«In questo scenario, il ricorso ad agevolazioni alle assunzioni non ha portato a una correzione di tendenza», commenta Fadda. «Continuiamo a trovarci di fronte, pur in presenza di incentivi economici o contributivi, al noto squilibrio di genere: assunzioni femminili minori in valore assoluto e con un’incidenza di part time molto più elevata della componente maschile. Occorre avviare una riflessione sul ruolo “migliorativo” e selettivo che, a partire proprio da questa fase di riavvio, dovrebbe caratterizzare il sistema degli incentivi. Il Pnrr, d’altronde, con le clausole di condizionalità già si muove in questa direzione».