Una Napoli straordinariamente tratteggiata, cruda e verace, oscura e solare, fa da co-protagonista del film di Sorrentino appena uscito nelle sale e che già fa parlare di sé. Un pugno nello stomaco e una carezza, che si alternano e si mescolano a tanto, tantissimo cibo che identifica, fa comprendere, e accompagna le scene determinanti della narrazione, con costanza e precisione.
Perché “È stata la mano di Dio” è un affresco che narra la vita, la sua essenza e i suoi risvolti ironici e tragici. E, come in ogni vita, il cibo è sempre lì ad accompagnare ogni istante, e a sottolinearne la complessità: il cibo di Napoli è identificato con la mozzarella azzannata a morsi dall’anziana impellicciata anche d’estate, in un crescendo felliniano che culmina nei pranzi familiari chiassosi e assolati, annaffiati di vino con le percoche, dove al desco si risolvono questioni, si confidano segreti, si accendono lotte e si pacificano animi.
E mentre la borghesia si diverte, in cucina il popolo prepara la salsa, in un antro con pentoloni enormi, fumi, luci tragiche e bottiglie di pomodoro che esplodono e spaventano i bambini. Un segno di cesura tra strati sociali, un linguaggio gastronomico in grado di identificare le classi, il cibo che livella ancora prima di abiti e abitazioni. Così come succede con la mamma del protagonista, che cucina per la Contessa del piano di sopra, troppo raffinata, ricca e nobile per perdere del tempo in questa attività così pop.
Il cibo diventa strumento di corruzione, cocomeri e champagne sono in grado di comprare un funzionario poco onesto e poco intelligente.
Ma sono i canederli della vicina austriaca il cameo gastronomico davvero determinante, che lancia il climax del racconto e lo riprende alla fine, in un perfetto cerchio della vita che anche dal punto di vista del gusto ha la sua perfetta sintesi. Canederli che rappresentano l’estraneo e il diverso, e che diventano il cibo consolatorio quando la vita ha il sopravvento sulle scelte di cuore e di pancia.