È sucesso a molte persone, nelle fasi peggiori della pandemia, di smarrire il senso del tempo. Le ore erano uguali, i giorni si confondevano tra loro in un flusso continuo di momenti indistinti e cattive notizie. Un fenomeno che gli anglosassoni hanno definito come Blursday, oppure Noneday: la settimana, con la sua alternanza di lavoro e riposo, sembrava non avere più senso. E tutto sommato, secondo David Henkin, professore di storia a Berkeley e autore di “The Week: A History of the Unnatural Rhtyhms That Made Us Who We Are” (Yale University Press), non dovrebbe stupire: di tutti i modi inventati dall’uomo per suddividere e misurare il tempo, la settimana è quella più artificiale.
Lo conferma anche l’aneddoto che riporta nel libro. Nell’autunno del 1853 Thomas Butler Gunn rimane in una caverna del Kentucky. Nel giro di poco il senso del tempo salta, nel suo diario alcuni giorni sono ripetuti due volte di fila, certi altri sono proprio sbagliati. Per recuperare l’orientamento cronologico gli è stato necessario un paio di settimane e, soprattutto, il ritorno alla civiltà.
È proprio questo il punto: la settimana è l’unità di misura della modernità. Se pure ha una storia millenaria, la sua scansione non era mai stata così tassativa e precisa come negli ultimi 200 anni. In Cina e in Nigeria, non esisteva nemmeno. In Occidente era spesso ignorata: per i protestanti si trattava di una serie di giorni che precedevano il sabato, per i cattolici di un modo come un altro per suddividere il tempo tra feste e momenti di digiuno (come i minuti: chi si metterebbe mai a distinguerli uno dall’altro?). Con l’arrivo dell’urbanizzazione e dell’industralizzazione aumenta la necessità di una suddivisione temporale precisa e condivisa, la settimana acquista un nuovo valore.
È nel XIX secolo che i giorni assumono la propria personalità: scandiscono cosa si può fare e cosa no (ma per assorbirlo è servito molto tempo: nel 1866, il Louisville Courier racconta la storia di un uomo che si era ubriacato di venerdì perché pensava che fosse domenica) e riflettono il ciclo del lavoro e del tempo libero. Gli effetti sono profondi, anche a livello psicologico: «Se pensi che sia martedì e invece è mercoledì, ti senti disorientato in un modo che non ti capita se pensi che sia il 26 e invece è il 27», spiega l’autore in questa intervista all’Atlantic.
La settimana, che pure oggi appare come una dimensione normale e incontestabile, è stata spesso sottoposta a tentativi di cancellazione e di riforma. Più volte si è cercato di «domarla», spiega Henkin, o per motivi ideologici (durante la Rivoluzione francese e in quella comunista) o perché le sue irregolarità da un anno all’altro disturbavano il ciclo degli affari. «Era il periodo in cui venne stabilita la linea del cambiamento di data e le zone dei fusi orari. Si è riusciti anche a imporre il tempo di Greenwich. Ma sulla settimana non c’è stato nessun cambiamento».
L’idea era di fissare i giorni della settimana una volta per tutte – ad esempio stabilendo che il 16 novembre fosse sempre mercoledì – e lasciando vuoti quelli che rimanevano fuori dal calendario, una sorta di periodo-cuscinetto tra un anno e l’alto. La proposta, nonostante fosse appoggiata da più parti, non ha attecchito, soprattutto per motivi religiosi.
In barba ai riformatori, i sette giorni hanno conosciuto una rapida globalizzazione, accompagnando la modernità e i suoi ritmi in tutte le latitudini del globo. In Giappone, per esempio, è stata adottata soltanto nel 1873. Ha avuto fortuna, è sopravvissuta e si è imposta ovunque, vero simbolo della vita moderna.
E proprio per questo è entrata in crisi, soprattutto sul piano psicologico, con la pandemia: la sospensione delle attività lavorative, la cancellazione delle abitudini personali e lo stop agli eventi sociali ha tolto senso a una scansione generale delle giornate. Il tempo è stato privato del suo contenuto, la sua misurazione non aveva più senso, mostrando per quel periodo il segreto della sua natura artificiale.