Certe volte in classe ci mettiamo a fare delle specie di prove Invalsi. In realtà non sono prove Invalsi, sono dei facsimile delle prove Invalsi, anzi no, nemmeno dei facsimile, chiamiamole per quello che sono: sono delle prove Invalsi tarocche che si trovano su quasi tutti i libri di antologia e i manuali di grammatica che si usano alle scuole medie.
Di queste prove Invalsi contraffatte se ne trovano un mare anche online, praticamente ogni insegnante che abbia un blog o un suo sito di risorse didattiche si scrive da solo le sue, e il punto è che nessuna, o quasi, somiglia veramente a un’Invalsi, nemmeno da lontano, e se quelle dei libri di testo sono solo fasulle, quelle messe online dagli insegnanti sono la cinesata delle Invalsi.
Le Invalsi vere sono fatte molto bene, e diciamo che ogni anno si perfezionano sempre di più, hanno raggiunto livelli di precisione vicini all’assoluto, sono accuratissime, oltre che per come sono costruite soprattutto per come poi vengono valutate, cioè con una scala docimologica tarata sempre meglio, in maniera sempre più fine, con risultati sempre più veritieri, che collimano ormai quasi per il 100% con il grado di maturazione linguistica e lessicale del ragazzo.
L’Invalsi, essendo concepita allo scopo precipuo di valutare dei parametri molto specifici, è diventato molto più pratica farla correggere direttamente a un computer: a ogni risposta, a ogni tipo di errore, a ogni tentativo di copiare (sì, Invalsi sa che gli studenti copieranno delle risposte ed è in grado di accorgersi se lo hanno fatto, dove e come, costruendo delle domande civetta che servono proprio a questo) viene assegnato un punteggio diverso.
Una cosa che forse rende bene l’idea della precisione delle Invalsi e del loro grado di sofisticatezza (difficile da replicare con gli eserciziari ruspanti che usiamo in classe) è che presto terranno conto anche del fatto che gli studenti (visto che tanto le prove Invalsi non fanno media, non comportano un voto, non servono a essere ammessi agli esami) tendono a dare risposte a caso (a “sparare” dicono loro), con lo scopo di togliersele davanti in cinque minuti e passare il resto dell’ora e mezza a produrre forme falliche utilizzando la gomma pane.
Queste Invalsi tarocche che facciamo in classe dovrebbero servire a esercitarci per le Invalsi vere e proprie che faremo in terza, e già questo è un po’ sbagliato in sé: le Invalsi non sono una materia o una tipologia di esercizi coi quali occorre avere dimestichezza. Al contrario, sono pensate per essere una partita secca, una finalissima: hai studiato per tre anni una serie di cose? Adesso ti proponiamo un problema preso dal mondo reale (materiale autentico, un grafico, una piantina stradale, una piccola comparazione di dati o percentuali presa da un giornale) e vediamo se riesci a capire come potrebbe essere risolto, oppure se riesci a decodificare (dopo tre anni di letture di antologia ed esercizi di grammatica) il messaggio o l’informazione contenuti in questo testo che ti chiediamo di leggere.
Per fare l’Invalsi, sarebbe a dire, non serve sapere come si fanno gli Invalsi (non c’è un modo per farli, non sono un sudoku o un rebus, non c’è bisogno di sapere come funzionano) serve solo andare a scuola e provare a leggere, ragionare, usare le cose che mano a mano si vanno imparando, perché in pratica lo scopo dell’Invalsi sarebbe proprio questo, cioè capire se questi tre anni sono serviti a qualcosa, e, in caso di risposta affermativa, misurare quanto sono serviti: poco? Abbastanza? Molto?
In effetti le Invalsi sono più una misurazione che un test: sì, certo, sono un momento di verifica, però non sono un esame. Sono quel tipo di verifica che si fa col termometro per capire se uno ha la febbre oppure no, non quel tipo di interrogazione che serve a sapere se ti ricordi la capitale della Norvegia.
Ovviamente non è così che vengono vissute a scuola: gli insegnanti le detestano perché ritengono sia un modo per dare un voto al loro operato, alla loro abilità o la loro efficienza come insegnanti (non ho mai capito come, visto che sono anonime), i dirigenti scolastici sono sicuri che siano un cavallo di Troia che viene introdotto ogni anno nella loro scuola per spiarne il buono o cattivo funzionamento, come una specie di cimice, per decidere quindi il destino dell’istituto: raderlo al suolo, togliergli fondi, metterlo in castigo, oppure ricoprirlo d’oro, portarlo a esempio davanti a tutta la nazione, beatificare docenti e personale Ata.
I ragazzi non sanno niente di tutto questo (né gliene importa qualcosa di saperlo), però respirano questo clima di ostilità diffusa verso le Invalsi e nel migliore dei casi le ritengono una scocciatura e basta, nel peggiore si mettono appunto a rispondere caso, senza degnarle di uno sguardo (la gomma pane è là, come il marmo di Michelangelo, ad attendere silente che loro gli diano una forma).
Io invece ho questa fissazione per le Invalsi, cerco sempre Invalsi per rileggerle e capire come mai quella domanda valeva x e quella risposta valeva y, spesso non lo capisco, ma intuisco che c’è una ratio molto specifica, e questo mi riempie il cuore di ammirazione e di fiducia nella pedagogia e nella didattica.
Ammiro moltissimo per esempio il modo in cui il quesito è stato posto senza ricorrere a nessuna nozione e senza inficiare la risposta tramite la domanda, ammiro la scelta dei testi (sono sempre bei testi, piacevoli da leggere), e provo a spiegarmi come mai sia stato scelto proprio quel brano di narrativa e come mai proprio quell’articolo di giornale come testo informativo, che caratteristiche particolari presentavano, come hanno ragionato i compilatori della prova, insomma cose di questo tipo, che fanno di me un cacciatore/raccoglitore di vere Invalsi e mi rendono al contempo inviso a colleghi e studenti.
Quindi insomma, ogni volta sfoglio l’antologia o la grammatica e alla fine del capitolo trovo delle bellissime schede colorate con su scritto: “Prova tipo Invalsi” e dico che bello, dai ragazzi, ora ci facciamo una bella prova tipo Invalsi, eh, che ne dite? E loro fanno il gesto di cacciarsi due dita in gola, impiccarsi al lampadario, iniettarsi eroina nelle vene, saltare giù dalla finestra, darsi fuoco con una tanica di benzina.
Io allora mi concentro sulla prova che gli sottoporrò e puntualmente ne esco deluso: è un brano qualunque, con domande vero o falso qualunque, oppure varie riformulazioni di questi lessicali qualunque, con quiz grammaticali qualunque. Pure quando sono fatte bene, manca comunque il criterio per correggerle (e quindi per misurare, che sarebbe il vero scopo della prova).
Comunque sia, siccome in giro non si trova niente di meglio, quando facciamo questi Invalsi pezzottati, che alla fine sono pure abbastanza facili, finisce che lo stesso non andiamo benissimo. Spesso non andiamo manco bene, anzi diciamo che andiamo maluccio.
Il motivo è più che altro che gli studenti trovano odioso leggere per intero il brano, e io questo ormai lo so.
Gli secca, si annoiano, fanno fatica: leggere una pagina da capo a fondo per loro è pallosissimo, sono fatti così. Io infatti so anche cosa faranno: leggeranno direttamente le domande e poi cercheranno nel brano le poche righe che contengono le risposte. È il loro modo per difendersi da me e dalle Invalsi, il loro modo per soffrire il meno a lungo possibile.
Ovviamente, è anche il sistema migliore per fallire il test (perfino quello pezzotto), perché gli Invalsi cercano appunto di misurare il grado di comprensione che il lettore dimostra nei confronti di TUTTO il testo, spesso anche con dei piccoli trabocchetti (ad esempio, indicando allo studente che la risposta è contenuta alla riga numero tot: il che è ovviamente vero, ma solo se non prendi la riga tot alla lettera e la metti invece in relazione con tutto il corpus).
Quindi io non faccio altro che dire loro: non leggete solo le domande, leggete prima tutto il testo, mi raccomando, altrimenti poi sbagliate le risposte. Solo che quando dico così loro fanno il gesto di cingersi il capo con una corona di spine e issare una croce in cima al Golgota.
Infatti è come predicare nel deserto: il foglio col testo integrale non viene nemmeno preso in considerazione (di solito è il primo del malloppo), subito girano pagina e vanno a leggere le domande: i ragazzi credono che così facendo vanno “subito al sodo”, cioè che così facendo daranno subito sia a me sia al test quello che vogliamo da loro.
Tante volte mi sono lambiccato il cervello alla ricerca di possibili soluzioni a questo atteggiamento, che inficia troppo la prova e che quindi la rende inutile. Ho creduto per qualche momento di averne trovata una brillante: ragazzi, ho detto loro anni fa, vi consegno un foglio e per venti minuti dovrete solo leggere questo foglio. Quando avrete finito, vi darò degli esercizi. Per circa un minuto mi sono sentito un genio. Poi ho visto cosa facevano: prendevano il foglio che avevo dato loro, lo mettevano di lato, sul banco, e si mettevano a giocare con la gomma in attesa che passassero i venti minuti. Ma non leggete?, chiedevo io. No, rispondevano loro, che leggiamo a fare adesso? Leggeremo quando ci darà le domande.
Niente, non se ne esce, di leggere una pagina intera proprio non gli va. Ho pure provato a leggere il brano insieme a loro. Gli dico (mentendo) che si tratta di una lettura di puro svago, casuale, e poi un po’ leggo io e un po’ faccio leggere loro, ad alta voce. Poi, a lettura ultimata, rifilo loro (surrettiziamente) le domande.
Solo che nessuno, o quasi, ha seguito tutta la lettura: diciamo che quelli a cui ho chiesto di leggere hanno effettivamente letto, ma solo quel pezzetto che è toccato loro leggere (alcuni facendo anche attenzione al significato, altri limitandosi a una lettura “meccanica”), mentre quelli cui non era toccato leggere, non hanno né seguito sul foglio né ascoltato la lettura. Puntualmente poi, all’arrivo delle domande, solito meccanismo: cerca quelle tre righe citate nella domanda, scrivi la risposta (sbagliata), consegna subito il foglio, mettiti a fare sculture che rappresentano un fallo utilizzando la gomma pane che hai rubato alla compagna seduta dietro di te (e poi, quando lei è distratta, reintroducila, con la sua nuova forma, all’interno del suo portapenne).
L’altro giorno ho assistito a tutto un bailamme scoppiato per via di un’intervista rilasciata dall’attore/regista e scrittore Pietro Castellitto, due volte figlio d’arte, diciamo, cioè figlio di un attore/regista (Sergio Castellitto) e di una scrittrice (Margaret Mazzantini). L’anno scorso avevo visto un film di cui Pietro Castellitto era sceneggiatore, regista e protagonista, e mi era piaciuto tanto. Quindi quando mi sono accorto che tutti parlavano dell’intervista a Pietro Castellito mi sono incuriosito e ho cercato di leggerla.
Non ci sono riuscito, perché a quanto pare era uscita su un settimanale cartaceo qualche giorno prima e non c’era modo di trovarla online in versione integrale (poi l’ho recuperata). Girava invece dappertutto un frammento, riportato dalla versione online del quotidiano il Messaggero, con un titolo molto vistoso: “Roma nord è come il Vietnam”.
Tutti i commenti che ho letto, in effetti, parlavano di questo paragone, ritenuto all’unanimità azzardato, fuori scala, ridicolo.
Io non so praticamente niente di Roma Nord, se non la cosa che sanno tutti, e cioè che nella geografia dei quartieri romani Roma Nord è la zona “bene” di Roma, per eccellenza o forse ormai proprio per antonomasia. Essere di Roma Nord significa, anche per chi non abita a Roma, essere “pariolino”, quindi benestante, viziato, anche arrogante (credo), classista (credo) e “fuori dal mondo”, nel senso di autoreferenziale, inconsapevole di come si svolga davvero la vita al di fuori di quel quartiere privilegiato, convinto, insomma, che i veri problemi, gli unici problemi, siano i suoi.
Siccome c’ho la fissazione delle prove Invalsi, ho detto: eh ma qua mica posso leggere subito le domande (i commenti indignati) prima mi devo andavo a leggere tutto il testo (cioè l’intervista), e mi sono dannato l’anima per questo fatto che, gira, cerca, prova, niente, l’intervista integrale non si trovava (scoprivo però che era stata fatta da Teresa Ciabatti, una che di solito fa interviste molto lunghe: mi ero scelto un Invalsi difficile). Ho ripiegato allora sullo stralcio, saranno state venti righe, e devo dire che una volta lette queste venti righe, il titolo era già diventato impossibile da equivocare: Pietro Castellitto stava dicendo che, proprio per la ben nota genìa di figli di papà che popola Roma Nord, essa può essere paragonata al Vietnam.
Non stava affatto dicendo: «A Roma Nord si lotta per non morire di fame» o «si cerca di sopravvivere scampando alla guerra per bande». Stava dicendo (portando anche l’esempio di una sospensione presa a scuola per aver sputato nel diario di una compagna di classe): bimbi viziati da genitori danarosi e vanesi (quale io stesso ero), convinti di essere stocazzo e di potere tutto, sono una giungla nella quale crescere stronzi è molto facile.
Il Vietnam veniva cioè usato come luogo difficile da cui venire fuori indenni nello spirito, difficile sfangarla con un’adolescenza così, competitiva, classista e, in fondo, segregazionista (racconta bene come i romani di Roma Nord si frequentino solo tra loro, chiudendosi al mondo).
L’intervista era insomma chiara e secondo me anche molto a fuoco, per cui ho pensato che anche qua, come con le Invalsi (in questo caso quelle pezzotte, trattandosi di uno stralcio) dovevano entrarci la pigrizia e la voglia di tornare al più presto a forgiare membri con la gomma pane.
Pochi, insomma, avevano avuto voglia di fare quel minimo di sforzo che sarebbe servito a capire lo spirito di una dichiarazione e avevano preferito leggere solo il titolo.
Il fatto è che secondo me però nemmeno questa pigrizia spiegava bene le reazioni (le risposte al testo), perché in realtà il titolo virgolettava una dichiarazione che aveva tutte le caratteristiche dell’iperbole.
L’estensore del messaggio (Castellitto) aveva usato un’esagerazione (il Vietnam, una zona del Pianeta in cui si è combattuta una guerra/guerriglia in mezzo a una giungla intricata e umida) per comunicare uno stato d’animo («ho corso il rischio di crescere tracotante e viziato»), e il mediatore (il quotidiano Il Messaggero) la aveva veicolata ponendola tra virgolette, come a solleticare curiosità nel lettore, il quale, sbalordito dall’enormità del contrasto (un quartiere “bene” paragonato a una zona di guerriglia spietata) avrebbe dovuto cliccare sul link per trovare poi nel corpus del testo una spiegazione.
La maggior parte dei lettori invece non solo non si era incuriosita (non abbastanza da leggere il resto, almeno) e si era limitata al titolo (le tre righe isolate, quelle della domanda) ma aveva risposto anche prendendo il titolo alla lettera.
Prendere alla lettera, in effetti, è un’altra forma di pigrizia. È più riposante che interpretare. È di sicuro anche meno divertente (il bello di capire un testo è cercare di capire il senso: quando l’hai capito, o pensi di averlo capito, il piacere è già finito), però è meno faticoso: non devi fare altro che stare al significato letterale delle parole, senza doverti mettere là a capire cosa il dichiarante sta cercando di dichiarare usando quelle parole (le parole sono un po’ come le sette note del pentagramma: sono tutte uguali, dipende da come le combini).
I testi, però, tutti i testi, forse ce lo siamo scordati, sono stati concepiti essenzialmente per intrattenerci.
La lettura, non appena ebbe assolto la sua funzione pratica (e per esaurirla sarebbe bastato fermarci a quella cuneiforme), ne intraprese una ludica: si scriveva per intrattenere, si leggeva per essere intrattenuti.
La pigrizia verso la lettura ci depriva (per forza di cose) del piacere connesso col leggere: è un piacere che si prova mentre leggi, e non dopo che hai finito di leggere. Se passiamo subito al momento di “fine lettura”, abbiamo saltato la parte divertente (o intrigante, o stimolante, insomma piacevole), e forse quindi siamo delusi: anche aver letto quelle sole due righe di titolo ci sembra fatica sprecata. Dunque cerchiamo una compensazione, dobbiamo recuperare il piacere perduto, e proviamo a recuperarlo liberando subito i sentimenti che quella breve lettura ci ha suscitato: antipatia, disprezzo, malanimo. Se non altro ci siamo sfogati, un piacere piccolo, ma meglio di niente.
Stare alla lettera è una specie di salto all’indietro nella nostra millenaria civiltà, evolutasi a partire dall’invenzione della scrittura e della parola scritta.
Già a partire dal primo libro vero mai concepito dall’uomo, cioè la Bibbia, fu subito chiaro a tutti che c’era uno scarto tra il detto (scritto) e il dicibile, e che questo scarto doveva necessariamente essere colmato dal lettore (all’epoca erano pochini quelli in grado di leggere, si meritavano il titolo di esegeta), al quale, in fondo, toccava la parte più divertente, cioè decodificare il testo, masticarlo per apprezzarne il sapore, e durante la ruminazione, godere col pensiero (che è un po’ il palato del cervello).
Per poterlo fare, il lettore era chiamato da subito non solo a contestualizzare la frase o le frasi o i paragrafi di un testo all’interno di tutto quanto il testo, ma anche ad aggiungere al testo tutto il suo scibile, tutto ciò che poteva cioè essere usato per chiarire a se stesso qual era il significato di quel testo (Eco diceva enciclopedia del lettore), perché appunto nessun libro può contenere tutto, e tocca a chi legge riempire i vuoti (che può riempire a seconda di chi è, dove e quando vive, cosa sa, cosa ignora ecc. ecc.).
Da là in poi, tutto un cammino basato su questo giochino: io dico delle cose cercando di farmi capire, tu le capisci, o quantomeno ci provi, ti sforzi, nel farlo trai una forma di godimento, o comunque provi una sorta di appagamento, poi ti senti meglio.
La pigrizia verso il leggere ci fa invece tornare un po’ alla fase pre-scrittura: le parole sono le cose. Se prendo tutto alla lettera e mi limito alla singola frase è un po’ come se le parole non fossero più le parole, non quindi grafemi o fonemi che vanno poi compresi, interpretati, contestualizzati, ma la semplice sostituzione di un dito che indica: puntare con l’indice una mela per comunicare all’altro «là c’è una mela».
«Roma Nord è il Vietnam», dice il titolo, e noi tutti a commentare sentendoci anche molto intelligenti: eh, ma come si fa a paragonare Roma Nord al Vietnam? In Vietnam si moriva, si sparava, era mors tua vita mea, a Roma Nord invece sono tutti ricchi e agiati e vivono nelle mollezze.
Il che, a pensarci, è un modo piuttosto scemo di commentare quel titolo, perché se tutto è alla lettera, allora tutto può risolversi solo in tautologia: solo il Vietnam può essere il Vietnam, e solo Roma Nord può essere Roma Nord.
Ammessa la nostra pigrizia, però, rimane un’altra stranezza: l’enciclopedia del lettore non ha per forza bisogno dell’intero corpus del testo per mettersi in moto e funzionare. Se “so” che Pietro Castellitto è un regista, uno scrittore, uno che ha studiato, insomma, e che ha dei genitori forse stronzi ma non deficienti, è difficile immaginarselo come uno così sprovveduto da credere davvero di essere cresciuto in Vietnam.
Le poche cose che tutti sappiamo di Pietro Castellitto bastano da sole a illuminare la frase del titolo e a intenderla appunto più come una frase intelligente che come un’idiozia. «Roma Nord come il Vietnam» in bocca a lui, è più probabile che significhi: eh ma non vi credete, tirarsi fuori da questi circoli di viziati e prepotenti non è esattamente uno scherzo, a Roma Nord crescere stronzo è un attimo.
Attribuire significato letterale alla frase di una persona il cui talento e la cui intelligenza sono evidenti, prima ancora che essere pigri, è andare contro il senso comune. Se lo fai, e se lo facciamo in così tanti, deve esserci qualcosa di più rispetto alla pigrizia del leggere.
A me, ogni volta che in classe provo a fare un prova Invalsi, vera o tarocca che sia, insieme ai ragazzi, e li guardo fare in fretta per poi mettersi a scolpire un glande con la gomma pane, viene in mente che in fondo anche noi quasi cinquantenni abbiamo smarrito, per pigrizia, il divertimento insito nel leggere. E forse, anche se non ce ne rendiamo bene conto, questa cosa ci dispiace molto. Per questo reagiamo così a certi titoli: sfoghiamo la frustrazione per esserci impigriti, prendendocela con chi ha scritto ciò che non abbiamo letto.