Nel saggio Bella di papà. La figura del padre nella cultura contemporanea (Blackie edizioni, traduzione di Veronica Raimo e Alice Spano), Katherine Angel conclude la sua disamina letteraria con queste parole: «Attraverso la scrittura creo un genitore, un’alterità, il cui volto rimane imperturbabile e che non ha bisogno del mio falso sé. Attraverso la scrittura creo l’oggetto, il lettore – il padre – che posso distruggere e che sopravviverà alla distruzione».
Disintegrare per mettere in salvo, trasfigurare per preservare, trasportare altrove per mettere al sicuro e allontanare da sé: le scrittrici scrivono del padre, il primo uomo il cui sguardo si è poggiato – o non poggiato – su di loro, cercando il disequilibrio di quel rapporto e poi trasformandolo nel cuneo dentro cui scavare, alla ricerca di una definizione impossibile per un rapporto che si nutre sia di totalità che di lacerazione.
Nelle prime righe del Grembo paterno (titolo efficace e bellissimo), l’ultimo – il quindicesimo – romanzo di Chiara Gamberale, quella definizione arriva nitida: il padre è «l’amore primitivo, inevitabile, ladro e santo della mia vita». A parlare è Adele, che a quarant’anni non ha mai superato l’adelescenza e per diventare grande ha avuto bisogno di fare una figlia nata solo da lei, come se solo in quella mimesi di partenogenesi potesse nascondersi la salvezza.
Alla bambina, che ha chiamato Frida, Adele si riferisce nelle ultime pagine come «stella, pesciolino e cocorita», a lei chiede di insegnarle la vita, di inventarsela insieme, come se da quel parto che sembrava una morte e invece era una rinascita potesse arrivare tutto, compreso lo stare al mondo, compresa la protezione dalla febbre del mondo.
La febbre del mondo è in realtà la febbre di Adele, per la quale arringa e dichiarazione d’amore coincidono: il modo in cui narra il padre lo celebra e lo inchioda, e mentre veniamo catapultati nel suo passato, nella sua infanzia in un piccolo paese fatto di poche regole e di un’atmosfera vivida rappresentata come onirica, a poco a poco incediamo nel presente, dove la quotidianità è una storia con il pediatra della figlia, una relazione che promette ciò che non darà mai, che fa sognare e ingabbia, basata su parole totalizzanti, ipnotiche, che però celano baratri, menzogne e tradimento.
Il grembo paterno è un romanzo diviso in due linee temporali che si intersecano: il pantano di oggi è la voragine di ieri, se siamo creature votate a cascare nell’inganno è perché nell’infanzia siamo state ingannate da una lingua magica.
Adele, cresciuta nella famiglia dei Senzaniente, ha vissuto un’infanzia con tutte le domande in fila e risposte da cui si è dovuta proteggere. Per questa parte del romanzo, Chiara Gamberale sceglie un lessico ispirato e stregonesco, con occhi che «allucciolano» e posti chiamati Piccola Città e Paese Vicino, e in quell’atmosfera di fiaba e incanto fa esplodere stridori e tragedie attraverso gli occhi di una ragazzina che ha fame di vita e dalla vita impara presto a difendersi.
Ogni volta che quella linea temporale si interrompe e ritroviamo Adele adulta, alle prese con il più grande amore della sua vita – no, non il padre né il pediatra: la figlia – tutto ciò che si traveste da vita quotidiana si spoglia della superficie svelandosi mostruoso e prismatico, un tempo invaso dal riverbero di quell’antico linguaggio, che non tornerà perché non se n’è mai davvero andato e sulla vita di Adele continuerà a incombere.
Il padre, in questo romanzo, è il monstrum: la cosa meravigliosa e spaventevole, il grembo che genera per attrazione e differenza, e la lingua con cui rivolgerglisi si alza per raggiungere la vertigine di quella sommità. È un padre che esonda e straripa, ed è coraggiosa Chiara Gamberale a tenerlo imbullonato fino all’ultima pagina, a seguirlo anche quando è in fuga pure dalle sue stesse fughe.
È un padre che non crea né lascia modelli, ma attanaglia e non sazia, e si può lasciare andare solo quando il cordone ombelicale si rigira per venire impugnato con freschezza e ineludibilità da una bambina nuova: «Sei arrivata e mi hai messo in mano il cordone dalla parte dell’ombelico grande: mi hai dato una femmina da sfamare. A farmi affamare da un maschio ci ho giocato per quarant’anni».