Fortezza assediataCosì la Russia è diventata una dittatura senza bisogno di aggettivi

Dopo l’arresto di Alexei Navalny, Mosca ha compiuto un’involuzione antidemocratica di sconvolgente rapidità. In pochi mesi votare, manifestare in piazza e protestare attraverso i media è diventato, da difficile che era, quasi impossibile. E chi sperava che, per decoro internazionale, il Cremlino non avrebbe superato certe red line è rimasto deluso. Da Linkiesta Magazine in edicola, in libreria o su Linkiesta Store

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«Vladimir Putin non ha nulla contro l’alternanza del governo, a condizione che non diventi un’idea fissa»: questa dichiarazione del portavoce del Cremlino Dmitry Peskov, pronunciata alla fine del settembre 2021, ha segnato la conclusione della trasformazione definitiva della Russia da un autoritarismo più o meno soft a una dittatura senza aggettivi.

Negli anni Dieci, l’economista Sergey Guriev, direttore degli studi economici a Sciences Po, aveva formulato per il regime di Putin e i suoi simili la definizione di “autoritarismo informativo”: un sistema che conserva i riti formali di una democrazia, cercando legittimazione in conferme elettorali il cui risultato viene garantito dal controllo ferreo del sistema mediatico e dalla creazione di narrazioni prima ancora che dalla repressione.

Le elezioni alla Duma del settembre 2021 hanno mostrato che, in una situazione in cui la realtà virtuale creata dalla propaganda essenzialmente televisiva non riesce più a garantire un consenso maggioritario, la ricerca di una legittimazione elettorale viene abbandonata.

I meccanismi di controllo del voto – come la presenza di osservatori internazionali e le videocamere nei seggi – sono stati smantellati, gli scrutatori indipendenti e i giornalisti sono stati cacciati, spesso con l’aiuto della polizia, e alle tecniche di brogli già collaudate si è aggiunto il voto elettronico, che ha assegnato la vittoria al partito governativo Russia Unita perfino nelle circoscrizioni più ribelli di Mosca e Pietroburgo. Ma il vero filtro è stato posizionato all’ingresso della competizione elettorale: praticamente tutti i candidati dell’opposizione liberale sono stati esclusi dalla corsa, o perché arrestati e/o incriminati, o semplicemente perché bollati come “estremisti”, in base alla nuova legge che priva del diritto a presentarsi alle elezioni chiunque abbia partecipato alle attività delle organizzazioni di Alexei Navalny, anche soltanto con una donazione o un repost sui social.

Perfino partiti abbastanza leali al Cremlino, come quello comunista, sono stati minacciati di repressioni, con la polizia che ha circondato la sede dove i legali del Pc stavano preparando i ricorsi contro le falsificazioni elettorali. La lista degli “agenti stranieri” stilata dal governo si allunga ogni settimana, mettendo all’indice intere testate e singoli reporter o attivisti, con numerosi giornali e siti costretti a chiudere e i giornalisti a emigrare.

Il Cremlino si è spinto fino a esercitare intimidazioni contro i giganti del web internazionali, costringendo Apple e Google a oscurare i canali di Navalny ed esigendo la censura su migliaia di pagine web, che andavano dalle rivelazioni sulla corruzione al vertice a quelle sui dati reali dell’epidemia di Covid in Russia. Nei mesi precedenti le manifestazioni in piazza sono state represse con una violenza senza precedenti, con decine di migliaia di arresti e centinaia di incriminazioni e condanne di vario grado di pesantezza.

In pochi mesi – sostanzialmente dall’arresto di Alexei Navalny al suo ritorno in patria dopo il tentativo di avvelenamento, il 17 gennaio 2021 – la Russia ha compiuto un’involuzione antidemocratica di una rapidità sconvolgente: in meno di un anno, votare, manifestare in piazza e protestare attraverso i media è diventato da difficile che era quasi impossibile. Una retromarcia brusca e brutale, che l’Occidente ha osservato costernato e impotente.

Con Navalny in carcere probabilmente fino a quando non cambia il regime, con i leader del suo movimento in esilio e con gli attivisti perseguitati e banditi dalla vita politica ufficiale, il percorso “classico” ipotizzato dalle opposizioni filoccidentali nei Paesi postsovietici – lotta contro la censura ed elezioni libere garantite dal sostegno della piazza – appare non più praticabile. Di fronte al rischio concreto di perdere il potere, o di doverlo condividere con una platea di “azionisti” più ampia rispetto all’attuale ristretta cerchia di fedelissimi, il regime non ha esitato ad abbandonare ogni parvenza di democrazia e ogni pretesa di comportamento civile.

Chi sperava che il Cremlino avesse delle red line che non avrebbe superato per non rischiare di uscire dal salotto buono internazionale per finire nel lager delle autocrazie, è rimasto deluso: il sogno di venire accolti dall’Occidente, a un certo punto quasi ossessivo, è stato accantonato. Putin – inteso sia come il presidente fisico sia come quell’entità collettiva che governa in suo nome – non ha avuto esitazioni a provocare e scandalizzare, facendo capire in diverse occasioni di non sentirsi più vincolato dalle regole occidentali della buona creanza: la minaccia di aggiungere alla lista degli “agenti stranieri” il Nobel per la pace Dmitry Muratov, «se violerà la legge russa e vorrà consapevolmente attirare l’attenzione» è un messaggio a Washington e Bruxelles. Perfino in epoca sovietica, la protezione dell’Occidente forniva spesso un salvacondotto a dissidenti e intellettuali, ma adesso sembra quasi che ogni apprezzamento estero non faccia che metterli ancora più a rischio.

Patti chiari e inimicizia lunga: perfino gli ambienti politici più tolleranti dell’Europa sembrano ormai aver archiviato ogni progetto di dialogo con il Cremlino, se non su dossier pratici come le forniture di gas, e senza troppe speranze in un compromesso. Per tanti versi, sembra di essere tornati a una guerra fredda simile a quella dei primi anni Ottanta, con la differenza che il comunismo sovietico rappresentava comunque un totalitarismo ideologico con un complesso equilibrio di poteri e interessi al suo interno, un protocollo di successione e una visione del futuro.

Quello di Putin è ormai un regime personalistico dove la corte prevale sul sistema – come testimoniano le nomine delle guardie del corpo del presidente a governatori e consiglieri – e la cui ideologia, con numerosi punti di contatto con quella del sovranismo europeo, è troppo fragile e arretrata per poter diventare un’alternativa all’invecchiamento strutturale, culturare e demografico della Russia.

L’obiettivo primario del Cremlino è ormai limitato alla sopravvivenza, come mostra il ciclo politico iniziato nel 2020 con la riscrittura della Costituzione per permettere a Putin di ricandidarsi per altri due mandati fino al 2036 e conclusosi con le elezioni alla Duma. L’alternanza al potere non solo ha smesso di essere una “idea fissa”, ma è stata di fatto abolita: alle élite sconvolte dalla cancellazione di ogni prospettiva di modernizzazione è stato proposto come premio di consolazione il progetto di estendere l’“azzeramento” dei mandati precedenti anche ai governatori e ai sindaci in carica, in cambio dell’aumento del potere di defenestrarli che è conferito al presidente.

Le scadenze elettorali diventano un rituale quasi superfluo, l’avvicendamento generazionale è congelato così come la mobilità sociale, e l’unico a poter decidere un cambiamento resta il presidente, che però si propone come garante dell’assenza dei cambiamenti in cambio della lealtà del sistema. Il contemporaneo aumento del 17 per cento delle spese per la polizia e i servizi nella Finanziaria 2022, insieme al drastico taglio delle voci per la sanità e il welfare, conclude la riformattazione del regime in una fortezza assediata, i cui occupanti non sanno e non vogliono proporre un cambiamento e si dedicano sostanzialmente all’autoconservazione.

Il nuovo equilibrio della paura è inevitabilmente precario, anche perché l’economia, la demografia, l’ecologia e la situazione internazionale non stanno giocando a favore del regime, ma è probabile che l’attesa per un mutamento del rapporto rischio-beneficio nell’andare contro il governo sia lunga. Nella classica triade di Albert Hirschman, l’opzione “Voice” è per il momento troppo pericolosa, l’opzione “Loyalty” ormai troppo poco remunerativa e la soluzione “Exit” impraticabile per la maggioranza, per quanto oggi più della metà degli under 24 russi dichiari di voler emigrare da un Paese che si aggrappa sempre di più al passato, nella paura di un futuro che si avvicina inesorabile.

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