Martin Rees non sta costruendo cattedrali.
Siamo seduti nel suo ufficio all’Istituto di Astronomia della Cambridge University in un mattino soleggiato di giugno e mi sta spiegando che l’umanità, come la conosciamo, sarà dimenticata. «Nel Medioevo, i costruttori di cattedrali erano contenti di costruire una cattedrale che sarebbe durata oltre la loro vita, perché pensavano che i loro nipoti avrebbero apprezzato e avrebbero voluto una vita come la loro. Non credo che per noi sarà così».
Rees non è nuovo a speculazioni sul futuro remoto, avendo scritto libri sul futuro dell’umanità e su tutti i diversi modi in cui potemmo accidentalmente condannarci. Secondo lui l’evoluzione, in senso tecnologico e culturale, sta accelerando così rapidamente che qualsiasi sarà l’intelligenza dominante nelle prossime centinaia o migliaia di anni non possiamo prevedere che aspetto avrà. Ma possiamo essere sicuri che non si preoccuperà di noi. «Penso che lasciare un’eredità lunga centinaia di anni sia un’ambizione più audace oggi di quanto lo fosse per i nostri predecessori» dice.
«Non la disturba?» gli chiedo.
«Mi disturba molto. Ma perché il mondo dovrebbe essere fatto come vogliamo?».
È impossibile riflettere seriamente sulla fine dell’universo senza fare i conti con cosa questa significhi per l’umanità. Anche se pensate che il punto di vista di Rees sia troppo pessimistico, in qualsiasi linea temporale con un’estensione finita si deve arrivare a un punto in cui la nostra eredità come specie semplicemente… finisce. Qualsiasi razionalizzazione usiamo per fare pace con la nostra morte personale basandoci sulla nostra eredità (magari lasciamo dei figli, oppure opere importanti, o in qualche modo rendiamo il mondo un luogo migliore), nessuna può sopravvivere alla distruzione finale di tutto ciò che esiste. A un certo punto, in senso cosmico, non avrà importanza il fatto che abbiamo vissuto. L’universo probabilmente si dissolverà diventando freddo, scuro e vuoto e tutto quello che abbiamo fatto verrà completamente dimenticato. Come ci fa sentire tutto questo?
Hiranya Peiris lo riassume in una parola: “tristi”.
«È molto deprimente» dice. «Non so che altro dire in proposito. Nelle conferenze a volte dico che questo probabilmente è il destino dell’universo e qualcuno piange».
Ci costringe ad assumere un punto di vista. «È molto affascinante per me pensare che l’universo abbia prodotto un periodo molto interessante in cui sono accadute tante cose» continua. «Eppure ci sembra di affrontare un periodo molto più lungo nella totale oscurità, al freddo. È orribile. In realtà mi sento, da questo punto di vista, molto fortunata a vivere nei pochi anni di storia della cosmologia in cui stiamo imparando tutto questo per la prima volta».
«Mi fa sentire momentaneamente triste» concorda Andrew Pontzen. «Poi molto rapidamente inizio a preoccuparmi dei problemi che abbiamo sulla Terra in questo momento e penso: “Dai, su”. Abbiamo problemi molto più gravi della morte termica dell’universo. Direi che mi fa pensare ai problemi che abbiamo come civiltà su scale molto più brevi. Se mi devo preoccupare di qualcosa, sono questi, non la morte termica».
«Non ho una vera connessione emotiva con la morte dell’universo, penso» continua Pontzen, «ma ce l’ho con la morte della Terra. Non mi preoccupo di morire tra cinquant’anni o giù di lì, ma non voglio che la Terra muoia in cinquant’anni».
Sono molto solidale con questo punto di vista. In termini di ciò di cui dovremmo davvero preoccuparci, la morte termica, il decadimento del vuoto, il Big Rip o altro non possono essere i primi della lista (anche mettendo da parte il fatto che al loro cospetto siamo totalmente impotenti). Come esseri viventi, ci preoccupiamo naturalmente di più delle nostre vite e delle vite di quelli che ci stanno vicini nello spazio e nel tempo, e perlopiù lasciamo a sé stesso il futuro inconcepibilmente lontano del cosmo.
Ma, personalmente, continuo a sentire una grande differenza, in senso emotivo, tra «saremo per sempre» e «non lo saremo». Nima Arkani-Hamed la pensa allo stesso modo. «Al livello in assoluto più profondo… che la gente ammetta esplicitamente di pensarci o meno (e se non lo fa si impoverisce)… Se penso che ci sia uno scopo nella vita, allora non so come trovarne uno che non si colleghi a qualcosa che trascenda la nostra breve esistenza» mi ha detto. «Penso che molti in un certo qual modo – di nuovo, esplicitamente o implicitamente – si occupino di scienza, o di arte, o altro per la sensazione di trascendenza. Tocchiamo qualcosa di eterno. Proprio così, eterno: molto importante. È molto, molto, molto importante».
da “La fine di tutto (dal punto di vista astrofisico)”, di Katie Mack, Neri Pozza, 2021, pagine 212, euro 18
© 2020 by Dr. Katie Mack, © 2022 Neri Pozza Editore, Vicenza