Credo fosse il 2010, una mattina d’inverno. Avevamo aperto il negozio da poco e ognuno svolgeva i propri compiti di routine sbirciando fuori la strada luccicante di pioggia. A un certo punto il telefono cominciò a squillare una, due, dieci, venti volte; la domanda sempre la stessa: «Ma è vero che chiudete?». Emanuela, gentile come suo solito, «Non si preoccupi, ci deve essere stato un errore, non abbiamo nessuna intenzione di chiudere», rispondeva all’interlocutore che la incalzava.
Una volta riattaccato le venne il dubbio che si trattasse di uno scherzo, quando però le chiamate ripresero capimmo che qualcosa non andava: clienti affranti, giornalisti a caccia di dichiarazioni, gente che chiedeva di parlare con l’ufficio stampa di Luini (ufficio stampa? ma perché mai un fornaio dovrebbe avere un ufficio stampa?). «Mi scusi, ma da chi ha avuto questa notizia?», tentava di capire Emanuela, la cui voce bassa aveva dell’incredulo, e da lì cominciò il gioco del telefono rotto, «Mi ha scritto un messaggio un amico», «La mia fidanzata mi ha girato un post di Facebook», «Non preoccupatevi, hanno già creato un gruppo di sostegno contro la chiusura, siamo già a 6.000 iscritti». «Chiusura? Noi non ne sappiamo niente… Quindi, mi creda, è una bufala! Noi mica chiudiamo, passi ora che le offriamo un panzerotto!», insisteva a usare la logica, povera figlia, ma dall’altro capo esclamavano: «È vero invece! l’ha detto anche Linus a Radio Deejay».
Mi sentivo come quel tale che scopre di avere perso il naso perché glielo dicono gli altri. Una storia assurda che per ore ci gettò nello scompiglio tanto che verso mezzogiorno decidemmo di staccare il telefono. «E se qualcuno chiama, trova staccato e pensa che davvero abbiamo chiuso?», «Al diavolo!».
Senza il «freno» delle due sorelle e con l’aiuto di mia moglie e delle mie figlie finalmente avevo la libertà di esprimere tutto il mio potenziale. Correvano e si adeguavano alla velocità con cui volgevo le idee in azioni, «come il fulmine tenea dietro al baleno», scandiva scherzosamente la letterata di casa.
Al mattino avevo sempre fretta, poi arrivavo regolarmente con mezz’ora di anticipo. «Sbaglio qualcosa, forse devo iniziare a indossare l’orologio», pensavo infilandomi il grembiule, ma l’entusiasmo di concretizzare idee lasciate per decenni a prendere polvere nel cassetto era come un Ballo di San Vito, non mi faceva stare fermo. Sapevo di godere di un momento particolarmente felice per realizzare – bene – le cose, con il supporto, stavolta sì, incondizionato, della mia famiglia.
Ricordo quegli anni con tenerezza. Probabilmente non lo ammettevo neanche a me stesso, ma ero felice. Non mi ha mai convinto il detto che l’artista dà il suo meglio quando soffre, tutte frottole; il dolore, la fame, l’insoddisfazione sono capaci di ucciderti.
È con l’armonia che l’essere umano realizza le cose migliori, e poiché ho sempre pensato che per fare il panettiere o il pasticcere bisogna essere un po’ artista, ripenso a quegli anni con tenerezza, perché in cuor mio mi sentivo finalmente così, libero di creare e sperimentare sia in laboratorio che in negozio, come un artista appunto. Con tanti aiutanti nella mia bottega.
In prima battuta concentrai i miei sforzi nella riorganizzazione degli ambienti, a partire dal laboratorio, rimasto fermo a quando sfornavamo quintali di pane ogni giorno.
La panificazione aveva smesso di essere il nostro core business, e il pane si misurava ormai in chilogrammi, non più in quintali. Sia pure a malincuore, decisi di disfarmi del vecchio forno, troppo grande, troppo poco efficiente, in favore di un forno più piccolo. Con lo spazio guadagnato cambiai le friggitrici con altre più performanti e ne aggiunsi una in più.
Anche i banchi tradizionali improvvisamente mi apparvero come un inutile spreco di spazio: potevo lavorare su banchi frigo dotati di piani di lavoro in acciaio inox e così sfruttare le celle sia per controllare la lievitazione dei panzerotti sia per approfittare dei momenti di fiacca per impastare facendo scorte per la giornata, così da scongiurare la frase che non ho mai voluto dover dire, «Abbiamo finito i panzerotti». Mi accorsi però che anche i banchi frigo ben presto si esaurivano, ci voleva quindi una cella ancora più grande in grado di contenere i carrelli interi pur mantenendo la giusta umidità al suo interno, per evitare che l’impasto facesse «la crosta».
Aumentare le scorte significava velocizzare gli impasti ma niente, mi ripetevo, «può allontanarmi dalla mia bella e silenziosa Vittoria». Struttura in ghisa, robusta come un toro, ingranaggi in bagno d’olio, potrei riconoscere l’impastatrice a forcella Pietroberto anche a occhi chiusi, solo toccandola. Con un po’ di imbarazzo ammetto di guardare i motori delle impastatrici con la stessa passione con cui i miei amici guardano le auto di Formula 1 ma, come si dice, a ognuno il suo.
Dunque, dicevamo, separarmi dalla Pietroberto, giammai. E allora che cosa potevo inventarmi? Come guadagnare tempo di produzione? «Luigi scendi a prendere altri quattro sacchi di farina e aprimeli, poi li verso io.» Ma certo! Ci avevo già pensato tanti anni fa, però Franca e Carla dicevano che costava troppo. «Un silos da 35 quintali nel magazzino è quello che fa al caso mio»: sono più veloce nel caricare, dimezzo la fatica fisica, regolo la quantità con la tramoggia in laboratorio e chiamo la farina con un bottone. Poi, a fine impasto, peso il panetto sulla stadera (le bilance elettroniche non le ho mai volute), lo spezzo e preparo i dischi. Eccola la mia rivoluzione, creare spazi laddove sapevo che sarebbe passata la mano di qualcuno ed eliminarne dove possibile.
Invertendo le posizioni delle spezzatrici, puntando ancora sulle vecchie formatrici a quattro cilindri anziché su quelle a due, ciò che fece rinascere la bottega Luini fu sostanzialmente un gioco di Tetris misto a un esercizio di immaginazione che solo chi conosce il lavoro del fornaio in ogni suo gesto, anche impercettibile, può comprendere.
da “Volevo solo fare il panettiere”, di Luigi Luini, Egea editore, 2021, pagine 157, euro 14,90