La Prima repubblica non ha mai goduto nella pubblicistica, ma anche tra larga parte degli studiosi, di buona fama. Anzi, possiamo dire che mai periodo della nostra storia – eccezion fatta per gli anni del regime fascista o per il tentativo di involuzione autoritaria di fine Ottocento, culminato con la repressione dei moti di Milano e le cannonate di Bava Beccaris – è stato giudicato così negativamente, e in maniera così lontana dai suoi effettivi meriti. A un più attento esame la vituperata Prima repubblica si rivela infatti un momento straordinario di buon governo senza eguali nella nostra storia, salvo forse gli anni migliori dell’età giolittiana.
In un trentennio, in un paese distrutto e comunque poverissimo, una classe politica di grande valore seppe infatti promuovere non solo la ricostruzione delle fondamentali infrastrutture e rilanciare le attività produttive, aumentando in maniera molto elevata PIL e reddito pro capite, ma anche promuovere una maggiore integrazione del paese con alcune fondamentali misure di giustizia sociale che hanno permesso a un sempre maggior numero di cittadini di accedere all’istruzione, alla previdenza e alla assistenza sanitaria.
Il compito che la classe politica si era trovata ad affrontare era immane. Il paese aveva subìto immense distruzioni materiali, era stato sconvolto nella sua coesione sociale dalla guerra civile ed era profondamente diviso dalla questione istituzionale.
Le distruzioni causate dalla guerra avevano interessato tutti i paesi che erano stati teatro dei combattimenti. Le città tedesche, e alcune regioni della Francia, erano state distrutte ben più delle città italiane. Ma nel caso italiano le distruzioni si erano aggiunte a uno stato di preesistente estrema miseria ben documentato dalle grandi inchieste parlamentari dell’Ottocento.
Pochi dati tratti dalle comunicazioni alla Costituente del ministero per la Ricostruzione, dal censimento del 1951, e dall’Inchiesta parlamentare sulla miseria del 1953 sono sufficienti a illustrare le condizioni che il governo Parri prima e i governi De Gasperi poi si trovarono a fronteggiare. La guerra aveva infatti colpito pesantemente persino l’agricoltura: la produzione agricola complessiva era solo il 63% di quella dell’anteguerra; ma quella del grano era, rispetto al 1938, poco più del 50%, e quella del granturco, vitale nella dieta di alcune regioni e per l’allevamento degli animali, meno del 50%. In ampie zone del paese, malattie come il gozzo o la pellagra indicavano la scarsità alimentare.
Nel caso italiano non è azzardato affermare che solo gli aiuti dell’UNRRA (United Nations Relief and Rehabilitation Administration), deliberati fin dalla sua istituzione nel novembre 1943 e iniziati ad arrivare nel 1945, salvarono l’Italia dalla carestia assicurando letteralmente il pane ad alcuni milioni di persone. L’UNRRA fornì alla Europa 5 milioni di tonnellate di cereali, di cui 1,3 in Italia. L’UNRRA dispensò non solo aiuti alimentari ma anche materie prime, in particolare carbone e prodotti necessari all’industria, finanziando anche programmi di ricostruzione di case e di sostegno alla maternità e infanzia in difficoltà. Dopo un iniziale periodo, gli aiuti furono estesi anche ai paesi europei vinti, e l’Italia su 3.653 milioni di dollari di contributi ne ricevette 421 milioni, seconda solo alla Cina.
Gli aiuti dell’UNRRA si affiancavano a quelli degli eserciti americano e inglese presenti in Italia, e a quelli direttamente forniti dallo stesso governo americano, e vennero infine sostituiti dagli aiuti del Piano Marshall, nell’evidente sforzo dell’amministrazione americana di sostenere i governi democratici dei paesi occidentali nei confronti dell’espansionismo sovietico.
da “Elogio della Prima Repubblica”, di Stefano Passigli, La Nave di Teseo, 2021, pagine 384, euro 19