La lega dell’umiltà straordinariaGli inaspettati benefici della sindrome dell’impostore

Adam Grant, nel suo libro “Pensaci ancora” (Egea), spiega che quando sentiamo affiorare la paura di essere inadeguati non dobbiamo ignorarla, ma concederci il beneficio del dubbio: può motivarci a lavorare in modo più intelligente

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Appena un mese e mezzo prima delle elezioni presidenziali islandesi i sondaggi attribuivano a Halla Tómasdóttir soltanto l’1 per cento di preferenze36. Per meglio concentrarsi sui candidati con più possibilità, la rete che ha trasmesso il primo dibattito televisivo ha annunciato che non avrebbe ospitato nessuno dei candidati accreditati con meno del 2,5 per cento dei voti. Il giorno del dibattito la Tómasdóttir è stata ammessa per un soffio. Nel corso del mese successivo, però, la sua popolarità è salita alle stelle. Non era soltanto una valida candidata; era nel quartetto di testa.

Alcuni anni dopo, quando l’ho invitata a parlare a un mio corso, la Tómasdóttir ha spiegato che il carburante psicologico che aveva alimentato la sua fulminea ascesa non era altro che la sindrome dell’impostore. Sentirsi un impostore è in genere considerata come una cosa negativa, e per una buona ragione: la sensazione cronica di chi si ritiene indegno può generare infelicità, schiacciare le motivazioni e impedire che si perseguano le proprie ambizioni. Di tanto in tanto, però, un senso del dubbio meno paralizzante zampetta nella mente di molti di noi.

Alcuni sondaggi suggeriscono che più della metà di coloro che conoscete a un certo punto della loro carriera si sono sentiti impostori. Questa sensazione si ritiene particolarmente comune tra le donne e i gruppi più emarginati.

Stranamente il fenomeno sembra anche decisamente pronunciato tra le persone di successo. Ho insegnato a studenti che avevano registrato brevetti prima ancora di aver raggiunto l’età per poter bere alcolici e che erano diventati maestri di scacchi prima di prendere la patente, ma questi stessi soggetti sono ancora alle prese con l’insicurezza e mettono costantemente in discussione le proprie capacità.

La spiegazione standard per i loro successi è che conseguono risultati nonostante i dubbi; ma che cosa succederebbe se il loro successo fosse effettivamente guidato, almeno in parte, proprio da quei dubbi?

Egea

 

Per dare una risposta a questa domanda, Basima Tewfik – allora dottoranda a Wharton e ora docente presso il MIT – ha reclutato un gruppo di studenti di medicina in procinto di iniziare il loro periodo di tirocinio. La Tewfik ha fatto in modo che questi studenti interagissero per più di mezz’ora con attori che erano stati addestrati a interpretare il ruolo di pazienti con sintomi di varie patologie. Ha poi osservato il modo in cui gli studenti di medicina trattavano i pazienti, rilevando anche il grado di correttezza delle loro diagnosi.

Una settimana prima, gli studenti avevano risposto a un sondaggio sulla frequenza con cui intrattenevano pensieri riconducibili alla sindrome dell’impostore del tipo: Non sono qualificato come gli altri pensano che io sia e Le persone che considero importanti mi ritengono più capace di quanto non creda di essere io stesso. Coloro che si erano identificati come impostori non si sono comportati peggio con le diagnosi, e hanno fatto anche decisamente meglio relativamente all’approccio con i pazienti: sono stati valutati come più empatici, rispettosi e professionali, oltre che più efficaci nel porre domande e condividere le informazioni. In un altro studio, la Tewfik ha riscontrato un modello simile con i professionisti degli investimenti: quanto più spesso si sentivano impostori, tanto più alte erano le valutazioni delle prestazioni da parte dei loro supervisori quattro mesi dopo.

Si tratta di nuove evidenze, e abbiamo ancora molto da imparare sui casi in cui la sindrome dell’impostore apporta benefici e su quelli in cui risulta invece dannosa. Tuttavia, questi dati mi portano a chiedermi se abbiamo giudicato male la sindrome dell’impostore considerandola esclusivamente come un disturbo. Quando sentiamo affiorare la paura di essere degli impostori, il consiglio, di solito, è quello di ignorarla, di concederci il beneficio del dubbio. Invece faremmo meglio ad abbracciare questa paura, perché può darci tre benefici connaturati al dubbio.

Il primo aspetto positivo del sentirsi un impostore è che può motivarci a lavorare di più. Probabilmente non ci è di alcun aiuto quando dobbiamo decidere se partecipare a una corsa ma, una volta che ci siamo portati sulla linea di partenza, ci dà la spinta per continuare a correre fino al traguardo e conquistare il nostro posto tra i finalisti.

In alcune delle mie ricerche su call center, team militari, squadre di governo e organizzazioni non profit, ho scoperto che la sicurezza può renderci troppo compiaciuti di noi stessi. Se non ci preoccupiamo mai di deludere gli altri, è più probabile che finiremo per farlo davvero. Quando ci sentiamo impostori, pensiamo di dover dimostrare qualcosa. Gli impostori potrebbero essere gli ultimi a lanciarsi, ma potrebbero essere anche gli ultimi a chiamarsi fuori.

In secondo luogo, i pensieri che gravitano intorno all’impostura possono motivarci a lavorare in modo più intelligente. Quando non crediamo di avere una possibilità di successo, non abbiamo nulla da perdere nel ripensare la nostra strategia. Ricordate che i principianti assoluti non sono vittime dell’effetto Dunning-Kruger. Sentirci degli impostori ci pone nell’atteggiamento mentale di un principiante, portandoci a mettere in discussione quegli assunti che altri danno invece per scontati. Il terzo punto è che sentirci degli impostori può migliorare le nostre capacità di apprendimento.

Nutrire qualche dubbio riguardo al nostro insieme di conoscenze e abilità ci induce a scendere dal piedistallo, incoraggiandoci a ricavare spunti e intuizioni dagli altri. Come scrivono la psicologa Elizabeth Krumrei Mancuso e i suoi colleghi: «L’apprendimento richiede l’umiltà necessaria a rendersi conto che si ha qualcosa da imparare».

Alcune prove su questa dinamica ci arrivano dallo studio condotto da un’altra delle nostre ex dottorande a Wharton, Danielle Tussing, ora docente alla SUNY di Buffalo. La Tussing ha raccolto i suoi dati in un ospedale in cui il ruolo di leadership del capo infermiere viene assegnato a rotazione tra i turni, il che significa che gli infermieri finiscono al timone anche se hanno dubbi sulle loro capacità. Gli infermieri che palesavano qualche esitazione nell’assumere il ruolo erano in realtà più efficaci come leader, in parte perché erano più propensi a chiedere un secondo parere ai colleghi. Si vedevano su un piano di parità e sapevano di poter recuperare attraverso l’ascolto molto di ciò che mancava loro in fatto di esperienza e competenza.

Da “Pensaci ancora – Il potere di sapere ciò che non sai”, di Adam Grant, Egea, 320 pagine, 28 euro

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